Decisi finalmente di parlare a Petra Pan.– Sei molto brava, invece – dissi a fatica, mentre l'olio mi impastava le corde vocali di puro vanadio che avevo costruito in centinaia di permanenze nei dirigibili. Non fui contento del risultato, ma era la mia prima frase a un umano e m'inorgoglì.Per tutta risposta, lei salì di nuovo la scala e mi spinse delicatamente il braccio in alto per iniziare a strigliare le piume di titanio. Facevano il suono di mille aghi di ghiaccio sfregati tra loro.

– Hai sentito? – dissi ancora, con meno fatica di prima.

– Sì, ho capito. Grazie. – Petra Pan si concentrò sulla macchia di fuliggine che copriva un'intera piuma.

– Non dici niente?

– Cosa?

– Ho parlato. Non dici niente?

– Ho già detto.

– Ma io parlo.

– E allora?

Lasciò la spazzola sul bordo della passerella e mi riattaccò il cavo di ricarica. Il cicalino si quietò. Era infastidita e imbronciata. Distratta.

– Noi cosi di metallo non parliamo – dissi. Ora la mia voce era più precisa, un cristallo dal suono greve.

Questa volta mi guardò e riconobbi nel suo occhio l'attenzione di sempre.

– Non parlate?

– No.

– Non lo sapevo.

– Come puoi non saperlo.

– Non lo so e basta.

– Quante cose non sai?

– Non lo so. – E continuò a grattare via lo sporco.

In quel momento mi sentii più umano di lei e fu una sensazione davvero strana, o forse capii quanti danni avevano fatto il controllo delle informazioni e il baccano culturale del dopoguerra. Petra Pan mi apparve come un contenitore vuoto e la sua camicetta di stelle stampate nell'armadietto perse improvvisamente tutto il suo valore, diventando l'abito di un numero di matricola e di una produttività oraria senza un occhio e senza un braccio. Non sapevo cos'altro dire, perché non sapevo cosa pensare. È l'istinto che mi manca. Che ci manca. E vederlo sprecato in Petra Pan che ne aveva per natura umana ma che era sepolto dalla cenere culturale lasciata dalla guerra, mi mosse nuove volontà.

– Io di cose ne so.

– Sì?

– Lo sai cosa facciamo, lassù?

Petra Pan lasciò la spazzola, prese una spugnetta d'acciaio e iniziò a lucidare le guaine delle frizioni d'ala.

– E il cielo, Petra Pan. Lo sai cos'è? – la incalzai.

– Ho sentito dire. Forse.

– Il sole. La luna. E le stelle, Petra Pan, le hai mai viste?

– No. E come sono?

Noi cosi di metallo non abbiamo un nome. Non ne abbiamo bisogno perché non parliamo e non ci chiamiamo, ma sappiamo le cose perché stiamo giorni e giorni nei dirigibili e ci voliamo attorno, e li puliamo e li curiamo, così come Petra Pan fa con me quando torno per la ricarica e la pulizia. Petra Pan ha un nome perché è umana, ma non sa le cose. Fu così che quella notte decisi di prendermi cura di lei.

– Te le faccio vedere – proclamai.

– Quando?

– Adesso.

L'occhio le brillò di paura e desiderio, cercando la convinzione nei miei.

– Non posso – disse guardando l'olio nella tinozza.

– Sì che puoi.

– Perché?

– Perché sei umana e devi sapere le cose.

Restammo nell'eco della sala della vasche per qualche secondo, poi Petra Pan scese velocemente la scaletta e io mi staccai il cavo di ricarica. Il cicalino iniziò a protestare.

Uscii dalla vasca. Grondavo ancora olio, allora Petra Pan srotolò la manichetta alla base della tinozza e mi spruzzò al volo un po' di delubrificante leggero di fine pulitura. Era eccitata e nervosa, e si guardava attorno, anche se sapeva di essere sola. Eravamo frettolosi e io mi sentivo così umano e istintivo che quasi riuscii a capire il senso della bellezza. Però mi sfuggì.

– Va bene così – le dissi. – Ora mettiti il giaccone. Farà freddo.

Andammo di corsa verso il suo armadietto. Lei non faceva rumore, io ero un clangore ritmico. Quando aprì l'anta e prese la gruccia, le mie corde vocali di vanadio modularono timorose: – Metti anche la camicetta.

Mi obbedì, vidi le stelle vestirla e il giaccone coprirla.

– Andiamo su? Vero? – chiese.

Io le tesi il braccio come aveva fatto con me e sganciai i ragni di metallo elastico che avevo sotto il carapace e che noi cosi di metallo usiamo per trasportare i materiali sui dirigibili.

– Non ti farà male.

Petra Pan mi abbracciò come poté con un solo braccio e io le strinsi i ragni attorno alle spalle e alle gambe. Lei gemette appena, poi restò in silenzio.

Balzammo sul davanzale di rientro. La notte aveva più neve e più cenere di quando ero sceso. Accesi le serpentine all'interno del carapace per riscaldarlo, e mi guardai il petto per cercare l'occhio di Petra Pan. Mi fissava, ed era spalancato e nero di paura.

Saltai nei fiocchi e allargai le ali, scintillando nella notte dei palazzi il suono splendente delle mie piume. Quando diedi il primo battito per salire di quota ricordai che la ricarica non era stata completata.