Il suo sguardo! Non c’era niente di naturale o umano in quello sguardo. Contemplavo i suoi occhi, neri e lucidi come ossidiana, chiedendomi quale abominio alieno potesse averli partoriti. Da essi scaturiva un richiamo potente, spietato e assassino. Ma anziché esserne spaventato, mi irretivano.

Avvertivo il desiderio irresistibile di arrendermi, docile, al loro magnetismo. Volevo avvicinarmi per stabilire un contatto, non fuggire, come sarebbe stato sano pensare: una brama folle, la volontà di sondare l’enigma sconvolgente che si rivelava, mi spingeva incontro a un pericolo che sentivo mortale.

L’essere mi scrutò imperturbabile, il volto di sfinge, come se mi conoscesse da sempre. Percepivo la sua consapevolezza. Uno straniero in terra straniera.

Mossi un passo allungando la mano per ridurre le distanze.

Qualcosa balenò nelle sue orbite, due pozze d’oscurità che racchiudevano infinità cosmiche. Il luccichio di un’esca simile a quelle dei pesci mostruosi che abitano gli abissi.

Fui colto dalla vertigine. L’illusione che avevo nutrito fino a quell’istante si trasformò in un grido di terrore, spezzando la realtà di cristallo che ci avvolgeva.

Mi chiamo Daniele Rondelli, vivo a Bologna e lavoro per una società di servizi informatici. Non è un gran momento per gli affari, non lo è per nessuna attività in questo periodo, con la crisi e non solo. Ma ciò che andava peggio nella mia vita erano i rapporti personali con Chiara, mia moglie.

I problemi economici sono in fondo affrontabili, rispetto ai litigi che contrassegnavano la nostra relazione. La distanza tra noi si misurava in chilometri; quelli che consciamente inserivo a ogni trasferta, pur di star lontano da casa e non sostenere una sfilza di discussioni sul più futile degli argomenti.

Consapevole o no meditavo l’idea di separarmi e il fatto di non avere figli rafforzava la mia determinazione. L’entusiasmo per la vita sembrava spento; la curiosità di cui ero sempre stato fiero avvizziva come un fiore senz’acqua.

Faticavo ogni giorno di più a riconoscere il volto pallido e smunto che lo specchio mi restituiva. Non era così che doveva andare la vita. Non era così che l’avevo immaginata, quando la mia mente era ancora piena di sogni.

I libri che un tempo adoravo leggere sonnecchiavano sulle mensole, ricoperti da una patina di polvere, e i vinili consumati dalla puntina del giradischi erano finiti in uno scatolone, chissà dove. Non capivo come facessi ad andare avanti in quel modo, senza uno straccio d’entusiasmo o un briciolo di gioia. Eppure, ci riuscivo. Giorno dopo giorno, mi lasciavo vivere.

Avevo provato a parlarne con Chiara per correggere quella deriva inesorabile che conduceva al nulla, una strada facile e in discesa che si perdeva nel deserto della quotidianità identica a se stessa. Ma lei non aveva capito. O forse non mi amava più con l’ardore che avevo sperimentato quando era più giovane e attratta da me; neppure ricordavo l’ultima volta a letto insieme. Come criticarla? Il tempo e le fatiche dell’esistere mi avevano cambiato, e lei non riconosceva più l’uomo che aveva accanto.

Così passavo le mie giornate ad arrovellarmi nel rimpianto di quel corpo che non avrei più avuto, e nel desiderio di quello di altre donne che mi sfilavano accanto come fantasmi.

Ero un fallito, me ne rendevo conto. E quella coscienza era peggio di una condanna. Me ne sarei voluto liberare, una volta per tutte, imprimendo una scossa alla mia vita. Ma non sapevo come fare. Intanto indugiavo, senza affrontare i problemi. 

Quando il capo mi annunciò che dovevo partecipare a una riunione a Roma, accolsi la notizia con autentica gioia. Adoro la capitale. Non solo per i monumenti, ma per l’atmosfera che la pervade in ogni suo aspetto come un’aura: il fascino discreto e sottile che scaturisce dal sedimentarsi dei millenni. Nelle mie condizioni, si trattava di una boccata d’ossigeno.

Sarei partito il dieci giugno, di lunedì, con il treno delle sei per rientrare la sera di martedì. Patrizia, la nostra segretaria, si era incaricata della prenotazione. Gli hotel che utilizzavamo di solito erano pieni. Così, dopo un giro di telefonate, era riuscita a scovare una camera in un albergo in via Sistina. La posizione era stupenda. Alla sera, sarei andato a fare due passi in centro. Da Trinità dei Monti mi vedevo scendere la scalinata di piazza di Spagna, avviato verso l’affollatissima via Condotti, pronto a smarrirmi nelle viuzze secondarie in cerca di un regalo per mia moglie. Sì, questa volta intendevo tornare con un dono. Volevo almeno provare a riappacificarmi con lei e quello sarebbe stato il mio ramoscello d’ulivo.

Più ci pensavo, più la cosa mi allettava, e non vedevo l’ora di partire. Dopo la levata del mattino e la giornata massacrante di lavoro, il taxi mi scaricò davanti l’albergo intorno alle venti.