Anzitutto, il prefatore nota che la fantascienza “ha un filo di tradizione nel romanzo utopistico, le cui radici

profondano nell’antichità, fino a Platone e a Luciano”. Questa interpretazione – notiamo – si ritroverà ampiamente illustrata circa un ventennio più tardi nelle pagine dell’importante volume Le metamorfosi della fantascienza (Il Mulino, 1985; ed. inglese 1979), di Darko Suvin, considerato il più autorevole critico vivente  della science fiction. Solmi inoltre individua in Herbert G. Wells il capostipite della moderna fantascienza, come sarà successivamente confermato da altri studiosi. Inoltre: “Le origini della science fiction non sono letterarie, bensì popolari”, ed essa nasce anche dal “gusto popolare per il fantastico, per l’avventura e magari l’orrido terrifico, suscitati stavolta dal mito della scienza, o meglio ancora della tecnologia, quale magia dell’avvenire”.

La fantascienza sarebbe, per Solmi, già una letteratura contaminata (come diremmo oggi), in quanto “prende in prestito dal romanzo d’avventura, dal poliziesco, e magari dal romanzo nero situazioni, effetti e intrecci tipici”. Come spiegare la presenza e l’espandersi di questa narrativa? Solmi: “Una sua interpretazione in profondo potrà portare alla luce uno stato di crisi, di inadattamento collettivo, come quelli che determinano nella storia i grandi rivolgimenti, o suscitano aspettative messianiche. Sotto la strutturazione razionalistica, o paradossalmente razionalistica, si cela un’inquietudine di natura mistico-religiosa”.

Segue un paragone: “La sola fioritura nel passato che potesse ricordare in qualche modo, sia per la sua vastità (riportata ai suoi tempi), sia per la sua chiara sintomaticità storica, la science fiction mi sembrò – una volta – il romanzo cavalleresco, la cui moda, nata in Spagna intorno al 1450, dilagò presto in tutta Europa. Le somiglianze sono significative…”. L’autore si profonde in raffronti, terminando con il sottolineare anche le differenze. “…Manca poi quasi totalmente ai cicli fantascientifici l’elemento dell’Eros, attorno a cui si accentrava e ordinava l’ideale cavalleresco”. Argomento, notiamo qui, che sarà affrontato felicemente un decennio dopo, negli anni Settanta, soprattutto da un corposo e agguerrito gruppo di scrittrici americane. Infine: “Nel mondo in bianconero della fantasia cavalleresca le forze del bene finivano irresistibilmente col dominare le forze del male (…) Nelle narrazioni fantascientifiche [invece] l’ambiguità è di regola: non più la certezza ma un impasto di speranza e di terrore, di entusiasmo e di thrilling”. Ma poi aggiunge: “…In egual grado vi partecipa l’irresistibile anelito alla grande novità imminente, alle felici epifanie dell’avvenire”.

A questo punto l’autore solleva un interrogativo, che resta forse il più importante e controverso tra quelli concernenti l’analisi critica della fantascienza (specie negli anni Sessanta-Ottanta in merito fiorì un profluvio di dibattiti e polemiche): “La science fiction, nella sua sostanza più fonda, sfugge alle ordinarie distinzioni critiche”. Ovvero, traducendo in nostre parole povere: si possono applicare in modo soddisfacente alla fantascienza i canoni critici della narrativa tradizionale? O forse questo genere incorpora un suo quid che crea una differenza? E nel caso, qual è la natura di questo ipotetico “specifico fantascientifico”? Il problema, pensiamo, sorge dalla natura ambigua, duplice della sf, unico nella sua tipologia: una narrativa fantastica che però ha un piede ben saldato nella realtà, se è vero che essa non è che una scansione a 360 gradi del “possibile” (non per nulla questa parola è nel titolo dell’antologia). Infatti scrive Solmi: “Essa offre una fondamentale antinomia: mentre da una parte costituisce una forma di letteratura d’evasione (…) dall’altro ama autoprospettarsi – e vi ha qualche diritto – come la letteratura più realistica e autenticamente engagée (...) Un fenomeno che sembra reclamare, anzitutto, un’interpretazione complessiva sul piano sociale e del costume d’oggi e, più addentro, un’interpretazione ideologica, ponendo mente alla sua singolare strutturazione utopico-fantastica”.  

La questione non viene chiarita, ma Solmi scrive a fine anni Cinquanta.

Tuttora essa rimane irrisolta.