Sono in due. Due ragazzini, più che pezzenti. Uno è al posto di guida e cerca di avviare il motore, l’altro gli dà le spalle, pare che conti i fusti di gasolio. Non si sono accorti del suo arrivo. Armando punta la Beretta Sliver alla nuca del ragazzo che sta inventariando la mercanzia. Fa fuoco. Si fa per dire. Perché la Sliver non emette neanche il minimo borbottio e non c’è nessuno scoppio, né la traccia, nel raggio di parecchi chilometri, di polvere da sparo. È un modello a fibre vegetali, in buona sostanza spara spine, letali, inarrestabili, che s’insinuano nella carne fino a cercare l’organo vitale più vicino; anche se la “pallottola” finisce dritta in mezzo alle chiappe, è capace di raggiungere il cuore e di paralizzarlo. Il ragazzo si affloscia su un fusto. L’altro non si accorge di nulla, impegnato com’è a cercare il contatto giusto per far partire il Mercedes. Armando è contrariato, per la scopata interrotta e per il gingillo americano che non gli dà alcuna soddisfazione. Non ha il tempo né la possibilità di prendere la 9x21 sotto il sedile, non adesso almeno. Così altera la propria percezione uditiva, linkando all’indice sul grilletto l’allucinazione sonora di una vera Berta a confetti di piombo. Gira attorno al cabinato senza spostare un filo d’aria. Prima di aprire la portiera, bussa al finestrino, lo scatto d’adrenalina del ragazzo gli porta la faccia dritta davanti alla pistola. – Fermo là, stronzetto. Il ragazzo comincia a tremare come una foglia. – Io, io, ecco...

– Non dire una sola parola, se non vieni interrogato, intesi?

Il tentativo di annuire del ladro si risolve in movimenti a scatti della testa, come se l’hardware che sta proiettando il suo film del destino si sia incantato, facendo singhiozzare i fotogrammi della realtà.

– Cosa volevate fare, eh?

– Prendere i fusti.

– Odio essere preso per il culo.

– Io non...

– E tu lo stai facendo.

 Gli infila la canna della pistola in bocca. Poi avvicina il medio della sua mano sinistra all’orecchio del ragazzo, cerca la connessione col nervo prossimo e proietta uno scoppio simulato nella corteccia della preda, che sussulta.

– Puoi andare.

– Cosa?

– C’è solo una cosa che odio quanto una presa per il culo: ripetere le stesse parole.

Il giovane ladro, per qualche istante, non crede alle parole del bastardo, poi si decide ad allontanarsi, a passi lenti, lottando contro la tentazione di fuggire a gambe levate. Dopo una decina di metri si volta, come un Orfeo che percorre al contrario la strada, senza guardare Euridice, ma la morte stessa che lo attrae verso l’Ade. Vede Armando che sorride e a gesti gli fa capire di stare tranquillo, di andare pure. Così cede all’istinto e si mette a correre.

Un metro.

Nessun rumore, nessun fruscio, sono salvo.

Due metri.

Tra poco svolto a destra, dietro la locanda, così sarò coperto.

Tre metri.

Che strano tipo, mi ha lasciato andare, veramente.

Quattro metri.

Ce l’ho fatta, cazzo non posso credere di...

La pallottola lo colpisce in mezzo alle spalle, mozzandogli il respiro. Il botto si propaga nell’aria fin dentro la sua scatola cranica, svanendo come un’eco stanca assieme al suo ultimo respiro.

Non è un’allucinazione indotta.

Gunman ha sparato con una Berta vera, roba da collezionisti. Confetti di piombo 9x21, corazzati. Quattro secondi per estrarla dall’imbottitura del sedile e puntargliela alle spalle. Ghigna tutto contento. Ha una nuova erezione.

Torna all’interno della locanda, con la pistola spianata.

Dentro sono tutti paralizzati dal botto ancestrale dell’arnese. L’oste muore a bocca aperta. La puttana è ancora di sopra avvolta nelle coperte. La bacia. Per lei l’odore della morte è quello della cordite, una puzza mai sentita prima e che non sentirà mai più. A condannarli è bastato solo il sospetto di essere d’accordo con quei ragazzi.

Soundtrack dell’operazione: Children of the Grave dei Black Sabbath, nella versione ipervitaminizzata dei White Zombie, condita nel finale – tra fischi e feedback sulfurei di chitarra – con generose urla di dolore e disperazione e adrenaliniche risate infernali.

 

                                ***

 

Chissà come c’è finito, quassù, pensa Bice.

Il cartello che ha ai piedi dice: “SP 325”.

La Bolognese.

Che poi è la strada che corre, curva dopo curva, pochi metri più giù: sul suo ciglio, case devastate e abbandonate, così come automobili arrugginite e senza carburante, magari tombe improvvisate per dei cristi fatti fuori dalla rappresaglia della RFN e lasciati a marcire sul posto.

Bice si tiene a debita distanza dalla strada, qualche volta percorsa da automezzi con le insegne della Repubblica Federale.