Harry Potter e il Prigioniero di Azkaban (2003)

Uno dei romanzi migliori della saga viene trasposto sullo schermo in una versione affidata al regista messicano Alfonso Cuarón, che si discosta completamente dai canoni precedenti realizzando una pellicola originale e innovativa. Un film appassionante, che non lascia tempo allo spettatore di capire cosa stia succedendo perché è come se si componesse di un'unica, inebriante e quasi onirica sequenza. Ma subito da qui sorgono due problemi che costituiscono la grande contraddizione del film. Da un lato perché in questo volteggiare di

azioni e avvenimenti lo spettatore che non ha letto il libro si perde inevitabilmente, o comunque non riesce a cogliere pienamente tutte le affascinanti sottigliezze del film, che il regista sottintende senza mai spiegare. Dall'altro perché lo spettatore che ha già letto il romanzo e si è naturalmente affezionato si vede tagliare un numero incredibile di scene fondamentali, scopre che spiegazioni indispensabili vengono cancellate, è sgomento di fronte a "licenze poetiche". Come quella del nuovo Silente, personaggio affidato a Michael Gambon che diventa nel film un vecchio hippy; o la perdita completa dell’atmosfera britannica dei precedenti episodi; o ancora la mancata spiegazione del fatto di chi siano i tre autori della Mappa del Malandrino. Buoni però tutti i volti nuovi: Gary Oldman è un discreto Sirius, David Thewlis un eccezionale Lupin, Emma Thompson un’insuperabile Cooman. Sul lato degli effetti speciali si compiono nuova sbavature, come l’osceno lupo mannaro del finale; molto meglio il reparto musiche dove Williams si riprende completamente e realizza una delle migliori colonne sonore della saga. In definitiva ll Prigioniero di Azkaban si libera con forza dalla patinatura fanciullesca imposta da Columbus ai primi due film ed entra prepotentemente nella nuova atmosfera più ‘dark’ e adulta dei romanzi successivi. Al contempo, pur nel suo discostarsi dal canone rowlinghiano (o forse proprio grazie a ciò), Cuarón realizza un film molto artistico e godibile, forse il migliore dell’intera serie in termini di regia.

Harry Potter e il Calice di Fuoco (2005)

La fatica di trasporre sullo schermo il voluminoso quarto romanzo è toccata a Mike Newell, regista molto convenzionale e ben collaudato almeno riguardo le commedie (Quattro matrimoni e un funerale, Mona Lisa Smile), e primo britannico purosangue. Il tentativo di Newell è quello di non farsi schiacciare dall’eredità dei romanzi, ma creare un film autoconclusivo che si focalizzi su temi a lui cari. Il risultato è la perdita del filo rosso che funge da collegamento a tutta la saga e che nel quarto episodio vede un punto di svolta, in favore di un film adolescenziale: si pone soprattutto l’accento sulla crescita di Harry, giunto ormai all’adolescenza e dunque alle prese con tutti i problemi e le nuove scoperte che da essa derivano. Un tema non secondario anche nell’opera della Rowling, ma che Newell sembra non voler perdere occasione per rimarcare in ogni momento possibile: per la prima volta una delle formule fisse della Rowling, l’estate dai Dursley, viene bypassata per giungere direttamente alla Coppa del Mondo di Quidditich e alle occhiate che Hermione e

Ginny si scambiano alla vista di Cedric Diggory e di Viktor Krum, il campione della squadra bulgara. La regia si compiace di insistere su scene imponenti, che tolgono il fiato: l’immenso stadio della Coppa del Mondo di Quidditch, l’arrivo della nave di Durmstrang, il labirinto dell’ultima prova del Torneo Tremaghi. A un taglio intimistico come quello del precedente film, Il Calice di Fuoco sembra preferire un ritorno allo stile di Columbus teso a sottolineare particolarmente l’aspetto visivo, con scenografie sempre più elaborate e suggestive, ampissime visuali e dispendio di effetti speciali in grandi scene d’azione, come quella – lunghissima e inutile – dell’Ungaro Spinato che in realtà non aggiunge niente alla storia. Come non aggiunge niente alla storia l’eccessiva lungaggine del Ballo del Ceppo, da Newell trasformato nel momento cult del film. Splendida invece la colonna sonora affidata questa volta a Patrick Doyle, che realizza la migliore partitura della saga. Sempre buon il cast, con un magnifico Ralph Fiennes nei panni di Voldemort che salva tutto al novantesimo e rende meno pessimo di quanto poteva essere questo – comunque brutto – quarto episodio.