Alcuni di loro affondano le radici degli esordi nell’era del cyberpunk, quando però i riflettori erano tutti puntati sulla scena nordamericana. Per questo, molti di questi nuovi maestri della fantascienza sono emersi all’attenzione della critica solo in tempi recenti: nella scia di Iain M. Banks si sono messi in luce dapprima i vari Ken MacLeod e Ian McDonald, e negli ultimi anni la fantascienza made in UK è letteralmente esplosa grazie alla massa critica accumulata con opere di autori tra i più originali attivi oggigiorno sulla scena internazionale del genere. Alcuni si barcamenano tra il fantastico e il mainstream, come Simon Ings o Geoff Ryman. Altri sono scienziati e tecnofori prestati alla penna, come il gallese Alastair Reynolds. Altri ancora, come Charles Stross, sono reduci dalla Bolla della New Economy e dall’underground letterario degli anni Novanta, oppure arrivano direttamente dalla New Wave, come M. John Harrison. E poi ci sono outsider come China Miéville o Richard K. Morgan.

Tutti però condividono una stessa caratteristica: una forte propensione verso il futuro, ancorato ai vincoli dell’estrapolazione e alle promesse attuali della scienza e della tecnologia, oppure svincolato da ogni limite e proiettato verso orizzonti ignoti, illuminati solo dal bagliore della Singolarità. Sono gli autori del British Boom, anche noto come Brit Invasion: gli alfieri di una nuova stagione della fantascienza, la prima nell'era di Internet.

Il Regno della fantascienza

Se c’è un Paese in cui la fantascienza è viva e vegeta e gode anzi di una salute di ferro è proprio il Regno Unito. Al cinema sbanca i botteghini, in TV registra ascolti da record con il redivivo Doctor Who e in libreria domina la lista dei bestseller. Non è il Paese dei Balocchi e neppure una terra immaginaria partorita dalla fervida fantasia di un autore incline al fantastico. Questa è una storia vera, scritta dai nomi sopra citati ma anche da molti altri, scrittrici e scrittori in bilico tra i generi come Liz Williams o Michael Marshall Smith. Insieme, attraverso le loro opere, hanno imposto una lezione che oseremmo definire di livello globale. Cercheremo di vedere in che modo. La fantascienza viaggia da sempre su due direttrici primarie, che sono una conseguenza diretta della sua naturale tensione verso il futuro. Il futuro è un attrattore caotico, verso cui precipitano su orbite imprevedibili le schegge del nostro presente. Così la fantascienza viene a essere al contempo estrapolazione nella sua attitudine a precorrere i tempi (cosa che la rende a tutti gli effetti “narrativa di anticipazione”) e trasposizione del presente nella sua consuetudine di attingere a schemi, luoghi e figure del nostro comune immaginario e sublimare tematiche di attualità politica e sociale. Dall’interazione tra questi due poli opposti possono nascere almeno due nitidi tentativi di sintesi: una di “basso livello” (più vicina al nostro quotidiano) che viene a identificarsi con la lunga tradizione distopica che ha i suoi capostipiti in Orwell, Huxley, Zamjatin e Wolfe, e una di “alto livello” (protesa verso il futuro, anche remoto) che possiamo invece associare a slanci escatologici che fanno con Olaf Stapledon e Arthur Clarke le prime, illuminanti manifestazioni. Chiaramente, entrambi questi canali si predispongono all’esercizio di una sana azione critica e gli autori britannici, meglio dei loro più blasonati colleghi d’oltreoceano, sembrano aver maturato coscienza delle potenzialità intrinseche della narrativa di genere. Sul finire del 2003 tra gli autori del Regno si è sviluppata una elettrizzante discussione incentrata sul tempo cui dovrebbe attenere alla fantascienza: in sostanza ci si chiedeva se la fantascienza dovesse avere a che fare con il presente, oppure essere del tutto slegata dal nostro tempo e scientificamente proiettata verso il futuro. I principali protagonisti del dibattito sono stati lo scozzese Ken MacLeod, che ha affrontato l’argomento in un ciclo di conferenze in giro per convention britanniche e irlandesi, e Alastair Reynolds, uno degli astri nascenti della nuova space opera. Il primo aveva già affermato la tesi secondo cui la fantascienza sa essere molto più illuminante sul tempo “reale” in cui è scritta, piuttosto che su quello “immaginario” che mette in scena. Intervistato alla Swecon 2003, Reynolds aveva ammesso la fondatezza di questa posizione, ma aveva anche messo in luce come una gran quantità di opere (incluse alcune pietre miliari, come proprio La città e le stelle di Arthur C. Clarke) sono nate come tentativo consapevole di immaginare come potrebbe essere il nostro futuro, senza alcun riferimento sottotestuale al periodo storico in cui si è compiuta la loro stesura. La discussione si è svolta mettendo a reciproco confronto questa che potremmo definire come una fantascienza escatologica (proiettata nel futuro e intenta a esaminare i potenziali sviluppi della civiltà o addirittura del genere umano inteso come specie) e la fantascienza distopica, con solide radici nel tempo in cui è scritta (e di cui ottimi esempi sono le opere dello stesso MacLeod oppure di P.D. James, tornata alla ribalta grazie alla trasposizione cinematografica di Alfonso Cuaron di un suo romanzo del ’93, I figli degli uomini).