Goethe, Kant, Eraclito, la pubblicità del cibo per gatti, qualche porcheria di fantascienza di serie B. Tutti sullo stesso piano, tutti con la stessa importanza. Dio si manifesta nelle cianfrusaglie, nelle lattina di birra che rotolano ai bordi delle strade, nei formidabili prodotti Ubik che tengono insieme il mondo in putrefazione.

L’orizzonte culturale di Philip K. Dick ;appare senza profondità, come se tutto fosse schiacciato in una prospettiva bidimensionale. Philip è come l’uomo che guarda il cielo e scopre le costellazioni, accostando, come punti di un disegno evocativo, stelle che distano, sul piano della profondità, milioni di chilometri.

Così la sua costellazione culturale lo porta ad unire frammenti di verità sparsi nei più remoti angoli dello scibile, in un’accozzaglia anarchica ed assolutamente post-moderna, programmaticamente priva di gerarchie; la ricerca di senso porta Dick a metabolizzare qualsiasi cosa brilli di un bagliore di verità.

Ben al di là del semplice espediente letterario, questa visione del mondo era ben radicata in Philip, era veramente il suo sistema di riferimento; lo possiamo constatare nel suo Esegesi, raccolta di pensieri di oltre ottomila pagine che costituisce il suo diario personale degli anni posteriori al 2-3-74, non certo destinato alla pubblicazione, quando ebbe un'esperienza mistica che si comcretizzo in un lampo rosa e in una serie di visioni.

Così era portato ad associare per temi, parole chiave o semplici analogie qualsiasi cosa lo riportasse alle verità che sentiva fossero in qualche modo eloquenti, pur senza riuscire a definirle; guardava il mondo come un rebus, in cui gli oggetti, al di là del loro significato, sono concatenati da una rete di senso che, nell’includerli, li supera.

In questo mondo di presenze disparate, si affaccia da una certa data il nostro poeta nazionale, Dante Alighieri, fiorentino di origini ma non di costumi.

La Divina Commedia la troviamo citata in cinque punti della letteratura dickiana, prima presente in modo puntiforme, poi inserita nel corpo di riflessioni complicate, infine protagonista indiscussa di un romanzo mai scritto.

La prima comparsa del fiorentino è in un saggio del 1975, Man, Android and Machine, incluso nel volume del 1988 The Dark Haired Girl. In questa prima occasione Dante è citato come testimone medievale di un concetto molto caro a Philip, ovvero quello di “tempo ortogonale”: mentre il nostro tempo è lineare, e quindi va in una direzione, dal passato al futuro, il tempo reale è una ruota, ortogonale al nostro tempo, che continua a ruotare con un periodo molto molto lungo, ma non infinito. Possiamo immaginare questi due tempi come un rullo da imbianchino e la striscia di pittura che esso lascia. La circonferenza rotante del rullo è il tempo ortogonale; la striscia di colore è l’effetto sensibile del ruotare del rullo, il solco del tempo ciclico nella storia, il tempo come percepito da noi. Questa lettura “fantascientifica” di Dante (probabilmente l’antecedente è Paradiso, ;XXVII, 118-120) è davvero originale, anche se in realtà è in gioco la tradizione aristotelico-cristiana relativa al Primo Mobile ed alla sua capacità di dare moto a tutto l’Universo.

La seguente citazione da Dante la troviamo ancora nella miscellanea saggistica ed epistolare The Dark Haired Girl, in un testo dell’81. Qui Dante è tirato in ballo come testimone di una visione gnostica del creato, imperniata sul principio dualistico di spirito e materia come incarnazioni del bene e del male.

Come l’oltremondo dantesco è diviso in tre regni, così Dick vede questa struttura anche nella nostra realtà: un fondo infernale, cieco, meccanico, duramente determinista, che amministra con precisione infernale e burocratica la nostra vita sulla terra. I regni superiori, man mano distaccandosi dal fondo del materiale, ci elevano a Dio, riportandoci indietro dalla materia allo spirito, allontanandoci dal mondo fisico tra le fatiche del Purgatorio e le beatitudini del Paradiso.