Da anni desideravo rileggere Il triangolo quadrilatero di William F. Temple, uno dei primissimi Romanzi di Urania (n. 9 del 10 febbraio 1953). Ne conservavo il ricordo che si può avere di un libro letto a 13 anni, per me oltre mezzo secolo fa. L’avevo trovato accattivante, molto diverso dagli otto titoli precedenti che raccontavano di viaggi nello spazio, colonizzazione di Marte, invasione dei Trifidi, umani telepatici (Slan) perseguitati, alieni che invadevano la Terra…

Quanto a scrittura e psicologia dei personaggi, Il triangolo quadrilatero sembra un’opera mainstream nella quale sia stato inserito il famoso “novum”: nella fattispecie, una macchina inventata come si inventava una volta, montata e collaudata in una specie di capannone. Quest’ultimo è ubicato non in una megalopoli ultratecnologica ma in campagna, a pochi chilomentri dalla classica piccola cittadina inglese. Rob e Bill sono i giovani, geniali ideatori e costruttori d’un duplicatore della materia. L’intera storia è narrata e commentata dal dottor Harvey, medico in pensione che i due chiamano amichevolmente ma rispettosamente “padrino” (ignari del significato che questa parola avrebbe universalmente assunto vent’anni dopo). William F. Temple (1914-1989), contemporaneo di John Wyndham e Arthur C. Clarke (con il quale per un certo tempo condivise un appartamento a Londra di ritorno dal fronte), riesce perfettamente a mescolare i due ingredienti, ovvero quotidianità, comuni reazioni emotive dei protagonisti, vicende sentimentali (che sono il nocciolo della storia), e la macchina meravigliosa: il “riproduttore”. Qualunque oggetto venga introdotto sotto la grossa campana di vetro del “riproduttore”, entro neanche un minuto si materializzerà duplicata in una seconda campana poco distante. E naturalmente il “doppio” sarà identico all’originale. William F. Temple sottolinea il concetto: non c’è differenza con il duplicato, sono entrambi “originali”. (Non male come intuizione – il romanzo è del 1951, ma amplia un racconto del 1939 – visto che qualcosa del genere apparirà realmente più di cinquant’anni dopo col computer, in cui le “copie” sono a loro volta indistinguibili dal documento iniziale).

La prova viene eseguita duplicando un dipinto che raffigura un volto di donna. Rob illustra al dottor Harvey e a Lena la funzione delle campane di vetro e fra l'altro dice: " Se un'ape volasse durante la formazione [del duplicato], il volto potrebbe trovarsi l'insetto incollato al mento, capite?" E' verosimile che George Langelaan possa aver tratto da questo dettaglio lo spunto per il suo racconto La mosca (1957), famoso soprattutto per aver fornito lo spunto a due film, L'esperimento del Dottor K (1958, regia di Kurt Neumann) e La mosca (1986, di David Cronenberg).

Che la scrittura appaia da autore mainstream peraltro non sorprende: è tipico di molti fanta-autori inglesi di quell’epoca. Pensiamo appunto a Wyndham o a John Christopher (Morte dell’erba). Ai tre personaggi citati presto se ne aggiunge un quarto: Lena. Una (ovviamente bellissima) ragazza ventenne, intelligente, disillusa e piuttosto disinibita, almeno per i tempi in cui il Triangolo fu scritto e ambientato. Lena ha girato l’Europa, è stata pittrice e modella a Parigi, ha sperimentato altre strade artistiche (narrativa, poesia, studio del pianoforte) ma ha fallito su tutto il fronte. Ha anche un tentato sucidio alle spalle. Si è trasferita nella cittadina per defilarsi, riflettere sui suoi casi e improvvisarsi un lavoro qualunque per vivere… poi si vedrà. Inevitabile che il suo carattere estroso e ribelle moltiplichi il suo fascino. Attraverso la casuale mediazione del dottor Harvey Rob e Bill incontrano Lena e se ne innamorano. Anche Lena finisce col subire l’attrazione dei due, e dovendo fare una scelta propende per Rob. Bill resta a macerarsi, finché non scatta l’inevitabile idea: perché non “duplicare” Lena? La “nuova” Lena sarà un altro “originale” ed è logico dedurre che, essendosi nel frattempo già sposati Rob e la “prima” Lena, la “seconda” scelga Bill. Detto fatto: il grandioso esperimento riesce. Temple non nomina la clonazione, cui il risultato del “riproduttore” si avvicina molto, ma – tramite il dottor Harvey – anticipa considerazioni sorprendentemente appropriate al riguardo. La storia procede: il “riproduttore” viene usato commercialmente, ma in modo soft. Questo è forse l’unico punto platealmente debole del romanzo, sia pure un romanzo di oltre mezzo secolo fa: assurdo che una simile invenzione agisca e al contempo resti quasi nell’ombra; ancora più assurdo che i maggiori musei del mondo inviino al laboratorio di Rob e Bill i loro “pezzi” migliori per farli tranquillamente duplicare di modo che “più persone in più città possano godere dello stesso capolavoro”; inverosimile che non intervengano le istituzioni. Preso atto di questa incongruità, proseguiamo nella lettura peraltro avvincente, per nulla sentimentaleggiante o stile telenovela nonostante la trama: e lentamente si innesca il primo elemento che farà gradualmente precipitare gli eventi. In quanto copia perfetta di Lena, anche Dot (come viene chiamato il “duplicato”) è innamorata di Rob. Dot ha tutti i ricordi di Lena fino al momento in cui quest’ultima si è fatta duplicare: ha quindi “vissuto” nei dettagli l’amore di Lena per Rob, il suo matrimonio, i primi tempi della loro convivenza. Due donne identiche (che in realtà sono “una”) di cui Lena amata da due uomini, amano entrambe uno solo d’essi: è un “triangolo quadrilatero”. Nel frattempo Bill, che dei due è la mente scientifica, tenta un esperimento legato a una sua nuova invenzione: l’esito sarà catastrofico. Una tremenda esplosione ucciderà Bill e distruggerà il laboratorio, “riproduttore” incluso; gli altri personaggi si salveranno solo perché dallo stesso Bill indotti quasi con la forza ad allontanarsi a distanza di sicurezza. Acquietatasi la nuova tempesta, Harvey considera la situazione e non ha remore nel proporre a Lena, Dot e Rob una soluzione molto pragmatica e certamente all’avanguardia: un ménage sentimentale (e sessuale) a tre: perché in fondo Lena e Dot sono (quasi) la stessa persona. Le due ragazze si dichiarano subito disponibili. E’ un momento della narrazione in cui Temple, riuscendo a evitare cadute di tono, anticipa di due anni la tematica e le eteree atmosfere del celebre romanzo di Henri-Pierre Roché Jules e Jim (1953), da cui Truffaut trasse nel 1961 l’omonimo, etereo seppure drammaticissimo film. (Nel 1971 Truffaut diresse magistralmente Le due inglesi, riprendendo e variando ancora il tema).