Dario Tonani è un autentico veterano della fantascienza italiana. Classe 1959, ha dato alle stampe il suo primo racconto professionale a vent’anni, ed ha proseguito pubblicando una quarantina di racconti (apparsi in svariate antologie) e un paio di romanzi, collezionando numerosi premi e riconoscimenti. La sua è una fantascienza che adora le contaminazioni e si spinge spesso per sentieri spiazzanti e poco battuti. Probabilmente è per questo che, durante la scorsa edizione del Premio Urania, la giuria, pur mandandolo in finale, non se l’è sentita di premiare Infect@: l’insolito e originale romanzo di Tonani decisamente assomiglia poco a qualsiasi altro romanzo italiano pubblicato sulla collana Mondadori. Tuttavia, fortunatamente, è in corso una nuova apertura di credito verso gli autori italiani da parte di Urania. Ed è così che questo mese anche Infect@ avrà la sua occasione di apparire con la copertina biancocerchiata della più longeva collana fantascientifica italiana. Abbiamo incontrato Tonani in un pub milanese in cui, dribblando il gorillone di guardia all’entrata e Betty Boop che voleva a tutti i costi servirci un altro drink, abbiamo avuto occasione di chiedergli come ha potuto immaginare una Milano invasa dai cartoni animati.

Qual è stata la genesi di Infect@?

L’idea mi è venuta scrivendo un racconto di science-fantasy. A un certo punto della storia il protagonista guarda il monitor di un computer e i suoi occhi non se ne staccano più, come sotto l’effetto di una droga. Curiosamente, a catturarli non sono immagini particolarmente scioccanti, di sesso o di violenza, ma quelle di un innocuo cartone animato. Mi è sembrata un’idea forte, così ho deciso di abbandonare il protagonista alla sua catalessi, di chiudere lì il racconto e mettermi a scrivere una nuova storia incentrata proprio sui cartoon “dopati” e sul loro potere di contaminare l’ambiente circostante. Da lì è nato Infect@, in primis nella forma di due storie brevi (di cui ho perso traccia nel mio computer), poi come romanzo.

Hai pensato fin da subito di ambientarlo a Milano?

L’hinterland milanese è uno scenario perfetto per una storia noir, meglio ancora se di fantascienza. Le periferie delle grandi metropoli occidentali sono tutte uguali, specie se ci sono nei dintorni i binari di una ferrovia o le piste di un aeroporto: disumanizzate, uniformi, grigie, monocordi, trasudano abbandono e disfacimento. Invogliano a rintanarsi in città o a prenderne decisamente le distanze premendo il piede sull’acceleratore. Del resto, la globalizzazione produce cliché, li moltiplica e poi li abbandona a se stessi. Il romanzo è ambientato in una zona abbastanza circoscritta di Milano, che è poi è quella che conosco di più, l’area sud-est, le sue tangenziali e la relativa periferia. Io abito lì, in un quartiere confetto, a poche centinaia di metri in linea d’aria dal labirinto di capannoni industriali e magazzini che anima l’indotto di Linate e dello snodo ferroviario di Lambrate. Mi è parso interessante ambientarlo proprio lì. Potevo fare un sopralluogo ogni mattina andando al lavoro...

Leggendo il tuo romanzo, è inevitabile pensare a un altro noir che metteva fianco a fianco uomini e cartoni animati, e cioè Chi ha incastrato Roger Rabbit?. Tu l’hai visto? Hai cercato in qualche modo di distanziartene?

In tutti i modi. Mi sono chiesto quale immagine potesse essere più “suggestiva” per veicolare la droga. I documentari sugli animali, gli spot pubblicitari, i vecchi film in bianco e nero? No, ho pensato ai colori. Colori carichi, saturi, pieni. Colori come luce. Le chine dei cartoni animati. Che potessero suggerire la presenza di qualcosa di esplosivo al loro interno, un attentato per gli occhi e un acido devastante per il cervello. Ma volevo dare anche un’interpretazione molto più cinica dei cartoon e creare un contrasto tra opposti: da una parte l’ingenuità, il divertimento, la spensieratezza, i buoni sentimenti di cui sono portatori, dall’altra il dramma della droga e il mondo di chi ci vive aggrappato. Mi piaceva il fatto che i tossici all’ultimo stadio, se volevano farsi, dovessero prima pipparsi il loro bel cartone animato… Ma c’è anche una ragione più personale per questa scelta: perché grazie al mio pusher di cartoon, mio figlio Nicolò (13 anni), ne ho fatto una terribile indigestione e me ne sono dovuto fare una ragione.