I romanzi di Korolev sono nati dall’entusiasmo che per la vita del Costruttore Capo. Quando lessi delle sue vicissitudini pensai due cose, strettamente legate: che si trattava di un grande uomo e che la sua vita era essa stessa un romanzo. Poi pensai una terza cosa: Sergej Pavlovič Korolev non avrebbe dovuto morire così giovane. Aveva 59 anni compiuti da due giorni, era nel pieno del suo sforzo per giungere sulla Luna con i suoi cosmonauti russi, prima dei concorrenti americani. Ma il “Costruttore Capo” del progetto spaziale dell’Unione Sovietica morì il 14 di gennaio del 1966 e le imprese spaziali russe si arenarono. L’ultimo regalo di Korolev all’Unione Sovietica, e all’umanità, fu la capsula Sojuz che, sebbene via via aggiornata, continua ancora oggi a volare e a raggiungere lo spazio. La Sojuz, progettata per tre astronauti, era la navicella che doveva raggiungere la Luna, spinta dal razzo N1. Ma Korolev morì e i suoi successori non ebbero la capacità, il genio, l’entusiasmo di spingere l’astronautica in avanti, per farla restare all’avanguardia. La morte di Korolev, di fatto, consegnò agli americani la vittoria nella corsa alla Luna.

Ma può un uomo solo risultare così importante in un’impresa così impegnativa e articolata come quella dei viaggi spaziali? Sì, lo può. È quello che è successo in Russia con Korolev, negli Stati Uniti con Von Braun. È quello che sta accadendo ancora in Usa con Elon Musk, in questi anni. L’entusiasmo, la forza, la capacità di un uomo sono in grado di fare emergere il meglio da tutte le persone coinvolte, dal primo ingegnere all’ultimo fattorino. È il famoso effetto cascata. Funziona sempre.

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Sergej Korolev

La vita di Korolev è stata un romanzo. Nacque a Zytomir, in Ucraina, il 12 gennaio del 1907; quando aveva tre anni i suoi genitori si separarono. La madre disse poi a Sergej che il padre era morto, ma non era vero. Korolev crebbe pensando di essere orfano quando, vent’anni dopo, il padre si fece vivo e chiese di incontrarlo: Sergej rifiutò. Studiò al Politecnico di Kiev dove già si tenevano corsi di aeronautica; viveva da uno zio e lavorava per pagarsi le lezioni. Concluse gli studi a Mosca, nella più importante università, la Bauman, iniziò la carriera progettando alianti, poi entrò nella sezione sperimentale per la progettazione di aeroplani, la Opo-4, guidata dall’ingegnere francese Paul Richard. Nel 1931 fondò con altri uno dei primi centri statali di sviluppo dei razzi, il Gird e nel 1933 lanciarono il primo, piccolo missile a combustibile liquido realizzando poi un sistema di controllo dell’assetto, un primo giroscopio per razzi. Ma nel giugno del 1938, Korolev venne arrestato e accusato di essere un traditore del regime comunista, al soldo delle potenze capitaliste. Era il periodo più buio delle purghe staliniane, della follia e del terrore. Korolev fu denunciato dal suo capo, Kleimenov, e dai suoi colleghi Langemak e Glushko. Torturato, confessò le sue “colpe” e fu condannato a dieci anni di lavori forzati nelle miniere d’oro di Kolyma, in Siberia. Dopo sei mesi, in seguito alla durezza della vita e ai maltrattamenti delle guardie, Korolev aveva perso tutti i denti e si trovava in gravi condizioni di salute. Ma non era scritto che doveva morire: nel 1939 il capo della polizia segreta, Nikolaj Ezov, venne sostituito da Laurentij Berija il quale, probabilmente per intercessione del celebre ingegnere Andrei Nikolaevic Tupolev, e forse dello stesso Glushko, decise di trasferire Korolev da Kolyma e di portarlo nel Caucaso in un altro campo di prigionia dove le condizioni erano più umane e dove poteva condurre i suoi studi. Nel nuovo campo di prigionia, Korolev ritrovò anche un ingegnere italiano che si era trasferito in Russia per ragioni ideologiche, Roberto Oros Di Bartini, che Korolev considerava uno dei suoi principali maestri.

Dopo la guerra fu nominato capo progettista per la realizzazione del primo missile sovietico, direttamente ispirato alle V2 tedesche: venne battezzato R1; Nel 1954 Korolev fu autorizzato a studiare il primo missile balistico intercontinentale: era quello che interessava davvero ai militari e quindi al governo sovietico, un missile in grado di portare una testata nucleare dalla Russia agli Stati Uniti. Il razzo R7 fu pronto il 21 agosto 1957 e il lancio fu un successo: era il primo missile intercontinentale della storia.

L’identità di Korolev era segreta, nessuno, al di fuori della cerchia dei suoi fidi, sapeva chi fosse e che cosa facesse. Tutti si rivolgevano a lui come “Progettista Capo” o “Costruttore Capo”. Al punto che la CIA pensava si trattasse del nome in codice di un dipartimento speciale. Invece era quest’uomo massiccio, non alto di statura, dalla grossa testa e dagli occhi azzurri penetranti.

Un giorno, Korolev parlò con il ministro della Difesa, Dimitri Ustinov, e gli disse che chi avesse controllato lo spazio avrebbe controllato il mondo. Perché un eventuale satellite in orbita poteva tranquillamente transitare anche al di sopra degli Stati Uniti senza bisogno di chiedere il permesso a nessuno… I militari si dimostrarono molto interessati all’argomento. A Korolev, come già a Von Braun a suo tempo, non interessava la questione militare, si trattava di un “escamotage” per potere realizzare il primo passo verso il cosmo. E, infatti, l’ufficio centrale del Partito comunista sovietico approvò il programma di Korolev e l’idea di lanciare, attraverso un R7, un satellite in orbita attorno alla Terra. Dopo alcuni voli sperimentali, il 4 ottobre del 1957, l’Unione Sovietica mise in orbita il primo oggetto mai lanciato nello spazio dall’umanità: era lo Sputnik 1. Il 3 novembre toccò al secondo Sputnik con a bordo la cagnolina Laika. Nel 1959 fu la volta prima sonda Luna che riuscì a raggiungere il nostro satellite naturale.

Poi il 12 aprile del 1961 il lancio di Yuri Gagarin e via via altri successi, fino a quella morte prematura.

Era il 2009 quando mi chiesi: che cosa sarebbe accaduto se Korolev non fosse morto? Mi sembrava ingiusta la condanna di quell’uomo, la sua scomparsa prematura. Cercai di approfondire la sua biografia, scoprii che aveva avuto due mogli, la prima, Xenia Vincentini, di origine italiana, gli aveva dato una figlia, Natalya. Non era stato facile il rapporto di Sergej Pavlovich con le donne. Scoprii che non soltanto era un progettista e una guida per la sua squadra di ingegneri e tecnici, ma era un punto di riferimento per tutti, anche per gli astronauti. Me lo confermò Valentina Tereshkova, la prima donna nello spazio, che ho avuto la fortuna di incontrare due volte. Korolev chiamava Valentina “Gabbianella”.

È vero, ci sono persone che non dovrebbero mai morire. Le prime che non dovrebbero andarsene sono i nostri genitori, i nostri cari. Poi le persone che ammiriamo, i grandi uomini e donne che fanno del bene e portano avanti l’umanità. Korolev per me era uno di questi.

A questo punto, ho pensato che la narrativa di fantascienza poteva consentirmi di compiere un balzo meraviglioso, cioè di immaginare – in maniera plausibile – che Korolev in realtà non fosse morto, ma… È quello che si scopre nel primo romanzo, “Il caso Korolev”. Incredibilmente, gli astronauti di una delle prime missioni marziane scoprono su Marte, sotto un cumulo di sabbia, una Sojuz. Cominciano a indagare, a cercare di capire… fino a quando si imbattono in qualcosa che nessuno avrebbe mai osato immaginare. La vicenda si articola, si complica. Emergono realtà sconosciute, una civiltà marziana scomparsa, un “Nemico” che aleggia sopra ogni cosa e rappresenta un pericolo anche per la Terra.

Sono i temi del secondo romanzo che portano Korolev a costruire un’astronave per raggiungere il piccolo mondo di Eris, uno dei pianeti nani al confine del Sistema Solare, nella fascia di Kuiper. Sul pianeta Eris è custodito un minerale del tutto singolare, capace di relazionarsi sia con la materia, sia con l’antimateria. Ma come è possibile? Korolev battezza questo minerale “Marzio”.

Succedono molte cose in “Korolev, la luce di Eris”, ma i problemi fondamentali non si risolvono. Scrivere un terzo romanzo era necessario.

Volevo che fosse un romanzo profondamente cosmico, per questa ragione ho approfondito temi come materia ed energia oscura, Quintessenza, dimensioni ulteriori, paradigma olografico, principio di causa ed effetto e principio di “sincronicità” o di apparente “casualità”. Mi hanno dato una mano fisici come Guido Tonelli con il suo incoraggiamento, Fabrizio Castelli, con i suoi pareri appassionati sugli snodi scientifici della storia, mio figlio Tommaso, ingegnere aerospaziale, Pier Maria Lupo Pasini, attento ai calcoli relativistici, e Andrea Avaldi, uno dei principali ingegneri di Space X, nella linea degli Oros Di Bartini e dei Rocco Petrone, italiano che ha lavorato per Crew Dragon e ora è impegnato sull’astronave per Marte, Starship. Andrea mi ha sostenuto nella convinzione di scrivere un romanzo ancora più cosmico, spaziale, dei precedenti, in qualche modo parente della tradizionale Space Opera, ma più propriamente “astronautico”.

Le stelle, i pianeti, lo spazio profondo, la solitudine, il mistero. La ricerca di qualche cosa che ci sfugge, ma che in qualche modo intuiamo, che vagamente avvertiamo, magari quando nelle notti limpide alziamo gli occhi e ammiriamo le stelle di Orione o del Cigno, e la Via Lattea.

In una piccola nota al primo romanzo citavo Vita con gli automi di James White, fra i libri in qualche modo ispiratori del mio Korolev. E poi citavo il mio precedente Il giorno della sfida (ora edito come Noctis Labirinthus da Delos Digital), Il buio a mezzogiorno di Arthur Koesteler e Una giornata di Ivan Denisovic di Aleksandr Solzenicyn romanzi che mi avevano aiutato a ricostruire l’atmosfera del gulag e dell’Unione Sovietica di quegli anni terribili della dittatura staliniana.

Ma, in maniera più ampia, mi sento debitore di tante opere e di tanti grandi scrittori, fra tutti Arthur C. Clarke, Stanislaw Lem, Clifford D. Simak, Ray Bradbury. E volendo citare un’opera decisiva per ciascun di loro mi vengono in mente La città e le stelle, L’invincibile, City (Anni senza fine), Cronache Marziane.

La meraviglia della scienza, la meraviglia delle parole che si fanno poesia, che cercano di toccare corde profonde in modo che noi, che siamo formiche attaccate a questa astronave che viaggia nel cosmo, riusciamo in qualche modo a spingere il pensiero e il cuore fino alle vastità più immense.

Andare oltre.

A pensarci bene, nel bene e nel male, tanta storia umana sembra fatta di questo.

La fantascienza è necessaria per la modernità, non a caso è nata negli anni della scoperta dell’elettricità, con il potente Frankenstein di Mary Shelley e non a caso ha preso vigore nella seconda metà dell’Ottocento, in piena rivoluzione industriale.

Nel primo grande romanzo di fantascienza, era il 1820, si cerca di sconfiggere la morte mediante la scienza, non più con la magia. Nel secondo capolavoro si vuole raggiungere la Luna: Verne pubblicò Dalla Terra alla Luna nel 1865. La fantascienza ha affrontato tante questioni nel corso della sua bisecolare esistenza, ma questi sono due topos, due temi fondamentali: capire il tempo e lo spazio, andare oltre i limiti che ci impongono.

Quello che chiamiamo progresso è un continuo andare oltre, nel bene e nel male. Per certi aspetti, oggi abbiamo possibilità che mezzo secolo fa apparivano fantascientifiche. Penso alle cellule staminali, alla possibilità di “spiegare” loro quello che devono fare attraverso un linguaggio elettrochimico. Penso al sapere enciclopedico a nostra disposizione in ogni momento grazie agli smartphone. Penso alla stazione spaziale internazionale, occupata in maniera continuativa da un equipaggio a partire dal 2000. Penso agli interventi chirurgici effettuati da robot. E penso a Starship, l’astronave in costruzione a Boca Chica, Texas, grazie a SpaceX. Penso alla scoperta del bosone di Higgs, alle parole di Guido Tonelli: “Noi percuotiamo con altissime energie il vuoto e dal vuoto si formano le particelle, i quark”.

Scienza e tecnologia ci aprono orizzonti che esaltano, che spaventano. Il Cyberpunk può apparire come risposta, come reazione all’affermarsi della cultura digitale, del mondo dei computer e della realtà virtuale; una cultura potente che poteva fagocitarci e snaturarci, privarci dell’umanità. Gli scenari oscuri e decadenti di tanto cyberpunk, l’alienazione ossessiva di tante sue storie appaiono come una preoccupata risposta a questa enorme novità. Ne stiamo uscendo. Ci stiamo rendendo conto che non per forza questa alluvione di chip e algoritmi deve farci precipitare nel buio dell’estraniazione e dell’incomunicabilità.

Anzi.

La fantascienza “accompagna” il futuro, cala nella vita degli uomini gli orizzonti più lontani di tecnologia e scienza, li umanizza, li trasforma in storia, suscita la meraviglia. È la sua ragione di essere, senza senso del meraviglioso, la fantascienza soffre, si smarrisce.

Come un essere umano che non sogna più, che non coltiva più una speranza. Muore.

Ho cercato di portare lo stupore per il cosmo anche in questo romanzo, La stella rossa di Korolev. Lo stupore della vita (vengono in mente le parole di Gabriel Garcia Marquez in L’amore ai tempi del colera: “… E lo turbò il sospetto tardivo che è la vita, più che la morte, a non avere limiti”), del cercare di comprendere il tessuto dello spazio tempo che ci ospita o, meglio, di cui siamo parte forse necessaria.

La speranza è che, terminando di leggere questo romanzo, vi venga voglia una volta di più di alzare gli occhi al cielo, di guardare le stelle di Orione o dello Scorpione, e che sentiate il cuore battere un po’ più forte.

Un’ultima nota. Questo romanzo esce nell’aprile del 2021, a sessant’anni esatti dal viaggio di Yuri Gagarin. Il primo libro di Korolev venne pubblicato nel 2011, per il cinquantenario e il secondo nel 2009, in corrispondenza dei cinquant’anni del primo uomo sulla Luna. Sono tre date importanti, giorni in cui la fantascienza si è fatta realtà, giorni storici. Qualcuno allora decretò la fine di questo genere, di questa narrativa. Ma la fantascienza non muore, sale un gradino più su.