Quando le radici: Stefano Tuvo

Nel 1978, sul n. 2 della fanzine The Time Machine (anno IV, n. 20 della serie) esordiva uno dei numerosi nomi lanciati negli anni da questa importante pubblicazione amatoriale: il triestino Stefano Tuvo...

Stefano Tuvo: leggi la presentazione di Vittorio Catani

Era stata una resa onorevole. Alle quattordici e trenta di lunedì, David Byrne aveva riposto chitarra, pedale e cuffia, spento i Revox a bobine e tolta la corrente all'impianto di amplificazione. Ora, seduto alla sommità di un altissimo, ridicolo sgabello - che Jerry aveva soprannominato il McKinley - sorseggiava una tazza di nescafé: forte e ben zuccherato.

Un ammainabandiera, dunque: ma a ciglio asciutto.

Nel corso degli ultimi giorni alcune idee - accordi, temi, motivi - hanno preso forma lentamente, durante - che so - una passeggiata alla Battery - o sono giunte di sorpresa, mentre riponeva i piatti della colazione, o aspettava l'autobus per Uptown; e ora, mature, impazienti vibrano e pulsano dentro di lui.

Così, verso le dieci di domenica, Byrne fa un salto al suo "studio", avvertendo l'esigenza di tradurre queste strane e nuove idee in sonorità reali, di svilupparle e ordinarle in un linguaggio che sia riconoscibile e percettibile, e di fissarle sul pentagramma in una sequenza coerente.

(Vuole, insomma, scrivere il suo pezzo.)

Emerge dall'uscita della metropolitana all'immobilità allucinata di un mattino festivo, con il cielo nuvoloso e le strade deserte. Percorre due isolati, svolta a destra e si ritrova davanti a un lugubre fabbricato in mattoni rossi di cinque piani, con le finestre dai telai a ghigliottina e le scale metalliche antincendio che scendono a zigzag lungo la facciata.

Ci siamo, pensa.

Si tuffa nel portone e sale i gradini di corsa. Quando giunge al pianerottolo dell'ultimo piano - dov'è situato lo "studio" - ha il cuore in gola. Gira la chiave nella toppa ed entra.

Si mette subito al lavoro. L'inizio è buono - davvero! - ma verso le undici...

Inaspettatamente, inspiegabilmente, Byrne viene colpito da una sorta di paralisi creativa. Lo schema di base dimostra la solidità di un castello di fiammiferi. Le note che cercano di abbandonare lo strumento rimangono appiccicate fra dita e tastiera, come insetti sulla carta moschicida. Gesti automatici quali riavvolgere il nastro per l'ascolto, o ruotare la manopola del volume sulla chitarra, diventano complicati e macchinosi.

In breve, è la crisi.

Ce n'è più d'una per ogni stagione; e l'inventario appare illimitato. Crisi personali e collettive, parziali e totali. Crisi politiche (Cuba, Watergate), energetiche (l'Embargo petrolifero, Three Miles Island), continentali (Sarajevo, Danzica), ed estetico-creative: il romanziere incapace di narrare, il musicista che non riesce a comporre.

David Byrne era un eccellente band-leader, sia chiaro - anche se a quell'epoca (inizi '78) non aveva ancora dato il meglio di sé. Attento, preparato. Alla ricerca di ritmi e sonorità inedite, di elementi nuovi da proiettare sulla scena del rock. Ma testardo: al limite del masochismo.

Si concesse alcune ore di riposo (?) sul divano letto dello studio, e alle prime luci di lunedi rinnovò l'assalto. Con ben scarsi risultati, ci è doveroso notare. A quel punto nella mente di Byrne cominciarono a vagare dei pensieri poco allegri. La condizione dell'artista alla fine dei Settanta, i vicoli ciechi infilati per pura sbadataggine, la morte lenta nelle sabbie mobili. Giù, pian piano: un millimetro per volta.

Decise di staccare.

David Byrne finì il caffè, risciacquò la tazza e si diede una veloce rinfrescata - nello studio c'era un cubicolo che Chris e Jerry si ostinavano a chiamare "bagno".

Sogghignò alla sua immagine riflessa nello specchio.