- Ti piace? - ripeté Karen con gli occhi luccicanti. Le varie sillabe lo raggiunsero dilatate e deformi, come gigantesche bolle di dentifricio. - T... i... pi-atsche... ?

Il suono della voce di Karen aveva acquistato nuove e diverse timbriche. Era lontano, e al tempo stesso pieno e vibrante.

I "contenitori"... poliedri tozzi e giallastri, dagli angoli smussati. C'era arrivato, alla fine. Karen teneva in quei recipienti tutto quanto le serviva: erano il suo guardaroba, la sua dispensa. Il suo archivio. Byrne alzò faticosamente il braccio indicando le sagome confuse degli scatoloni accatastati contro la parete ed ebbe conferma ai suoi sospetti, perché il pavimento sembrò sfaldarsi sotto di lui e Karen diventò pallida, pallidissima... bianca come un pierrot. La linea delle sopracciglia, la breve zona d'ombra fra la punta del naso e il labbro superiore, l'area più vasta che avvolgeva un lato del collo sfumarono dal carboncino al grigio cenere, e...

Si dissolsero. Confluirono in una penombra senza nome. Provate a chiudere gli occhi, per un attimo. Cosa vedete? Siete circondati da un'assenza totale di colore, profondità, movimento. Non è l'oscurità, e nemmeno la luce. E in quel nulla fluttuano delle presenze indefinibili, ignote.

Byrne abbassò lo sguardo e vide solamente una distesa perlacea, uniforme: tentò di flettere le braccia, in un gesto di difesa istintivo quanto inutile... Ma non riuscì a compiere alcun movimento. I suoi arti superiori - e inferiori - avevano cessato di esistere. Niente petto, addome o gambe. Niente.

Adesso, rifletté, sono un puro spirito.

Un dolore sordo, profondo gli imprigionava gomiti e polsi, ginocchia e caviglie. Il collo era rigido e pesto.

Tentò di muoversi, questa volta con la massima cautela, e i muscoli, sebbene intorpiditi, reagirono allo stimolo. Si era risvegliato esausto, confuso. Aveva perso del tutto la cognizione del tempo. Ascoltò il suo respiro entrare e uscire dalle narici. Aria. E un corpo, sostanzialmente integro anche se malconcio. Chiuse le mani a pugno... riaprì le dita. Ovunque si trovasse, faceva buio: distingueva a malapena le proprie estremità. La temperatura era fresca.

Scoprì di giacere su di una superficie dura e incurvata, liscia, compatta. Indossava ancora gli abiti di lunedì... anzi di domenica. Ricordava tutto quanto alla perfezione.

Il traffico lungo l'Ottava. L'incontro con Karen in una gelateria. La Pinto, e la casa di Brooklyn Heights. Era lì che... Che cosa? Aveva perduto i sensi, naturalmente. Ma non soltanto; gli era accaduto qualcosa di ben diverso... Oh, inutile recriminare. La compita, gentile Karen l'aveva messo nel sacco, e basta. Con l'ipnosi. Con la droga. Con qualche aggeggio diabolico camuffato da televisore... o da carrello porta-abiti. Una macchina... televettrice. Si chiamavano così, no?

E adesso, lui era "da qualche parte", Dio sapeva dove, in attesa di chissaché.

Sbuffò, cercando di alzarsi in ginocchio. Una fitta crudele alla schiena lo costrinse a girarsi sul fianco. Esasperato, si mise a sedere. La sua posizione era però instabile: dovette puntellarsi con entrambe le braccia, per evitare di cadere a lato.

Una sfera.

Se ne stava seduto sul fondo (?) di una bolla di materiale plastico, apparentemente omogenea, del diametro approssimativo di due o tre metri. Le pareti curve si alzavano simmetricamente intorno a lui. All'esterno vide tremolare puntini luminosi, molto distanti l'uno dall'altro.

Stelle.

Stelle?