Poltiglia

Nella poltiglia, il nutrimento.

Carboidrati. Lipidi. Proteine. Vitamine. Sali minerali.

Tutto nella poltiglia.

Tutto nella poltiglia scura, che si muove lenta ma fluida lungo le sonde trasparenti. Come una spremuta di marron glacé.

Nutrimento per tenermi viva secondo programma. L'infermiere meccanico me lo elargisce con quella temperanza genetica dalla quale i suoi sistemi neurali non possono prescindere. E' il compito che gli è stato affidato, un compito che lui espleta con attenzione, per impedire un decesso prematuro. Per l'Ordine io sono ancora merce preziosa. E così, l'infermiere si muove attorno al mio lettino per controllare le sonde, regolare i cateteri, tarare i flussi di poltiglia. L'ho ribattezzato Gilles. Perché, nel bene e nel male, mi ricorda il generale de Rais. Me lo ricorda molto. Per la dedizione che mi riservò e per le nefandezze che, invece, perpetrò dopo.

E' grottesco, Gilles. O per lo meno quello che di lui riesco a vedere quando mi passa accanto. Non molto, considerato che così immobilizzata posso soltanto piegare la testa dai due lati... e con sforzo.

Una fitta mi trapassa il braccio destro, strappandomi un grido muto. Nessun suono, solo le labbra secche che si schiudono: mon Dieu! Dalla sofferenza riaffiorano altri dolori: mi torna il ricordo delle voci che mi guidavano e del fuoco di Rouen che mi consumò. Invoco mentalmente il Suo aiuto. Lo faccio sempre nei momenti di difficoltà. Verrà, ne sono certa, presto verrà a porre fine alla sofferenza, a liberarmi dal dolore. Prima di Gilles. Meglio di Gilles... La poltiglia vibra, la sento. Lungo le sonde trasparenti la poltiglia vibra di suono nuovo, e la fitta, il dolore lacerante, sopisce. C'è stato un contatto, un'interferenza nello scorrimento del flusso. E Gilles non c'entra. Il sollievo mi sorprende. Mi sorprende, perché avevo pensato: questa volta il dolore durerà, mi scaverà dentro caverne di dolore. Per finirmi. Caverne di dolore. Così avevo pensato. E, forse, così avevo sperato. Ma il Suo contatto ha lenito la pena. Ed io sono ancora viva.

Arrivano anche i Minervali. Trafelati. Con le tonache candide che svolazzano. Gilles, in qualche modo, deve averli avvertiti. Ma io sono ancora viva. C'è anche il Novizio, quello con un'espressione di pietà perennemente stampata sotto gli occhi penduli: è il primo ad accostarsi al lettino per verificare le mie condizioni. Riesco anche a sorridergli, credo, per rincuorarlo, per comunicargli che sì, sono ancora viva. Oui, je suis encore vivente.

Άγενής

- Io sono uno di loro, un non vivo - conclude l'uomo. I suoi occhi, che fissano con ostinazione, studiano le reazioni dell'interlocutore con una strana luce spenta. - Cosa pensa della mia storia, commissario D'Ippolito? Mi ritiene un folle? Un alcolizzato?

Un brivido percorre la schiena del poliziotto. - Non so. Sinceramente, non so cosa pensare. - Inspiegabilmente, la sua prima preoccupazione è quella di non offenderlo. Forse è colpa delle luci basse del locale, una bettola d'infimo ordine, ma l'uomo che gli siede di fronte, dall'altra parte del tavolino unto, appare avvolto in una sorta d'alone mistico. Incute rispetto. - Deve ammettere che non è facile credere a tutto quanto mi ha raccontato. Di padre Ernetti e dei suoi esperimenti avevo già sentito. Vagamente. Ma gli sviluppi che lei sostiene... E poi, perché viene a raccontarlo proprio a me?