Si leggono a fatica, i primi capitoli di questo romanzo minore del grande scrittore di fantascienza polacco; e non perché siano mal scritti, ma perché restituiscono in modo efficace la difficoltà, lo sforzo immane, lo spaesamento e l'esasperazione di uno straniero catapultato in un mondo frenetico, efficientista e completamente incomprensibile. Pagine che richiamano quelle di un altro grande romanzo, uscito però successivamente: Epepe dell'ungherese Ferenc Karinthy, un monumento allo straniamento, una tragedia di incomunicabilità e mancanza di contatto umano a partire da una lingua indecifrabile. (Prima edizione Ritorno dall'universo: 1961. Epepe: 1970).
In Ritorno all'universo, invece e per fortuna, la decifrazione arriva: un passo alla volta, un errore alla volta, intravediamo le logiche del mondo nel quale il protagonista si ritrova, e parallelamente il suo passato traumatico che emerge a sprazzi, e che ci dà le chiavi di lettura del suo dramma.
La storia è quella di un ritorno particolare: Hal Bregg fa parte dell'equipaggio di una missione di esplorazione spaziale, che nella sua corsa interstellare ha trasceso il tempo terrestre. Per gli astronauti sono trascorsi dieci anni, invece per la Terra ne sono passati più di centocinquanta. Lo shock culturale dei ritornati (potremmo quasi chiamarli reduci, e non solo perché la missione conta delle vittime) è quello di chi si ritrova in un mondo radicalmente cambiato, oltre ogni immaginazione, anche oltre l'addestramento cognitivo che aveva tentato di proteggere gli astronauti. È cambiata la società, la tecnologia, le abitudini; sono cambiati rapporti interpersonali, i valori, i presupposti del vivere civile; soprattutto, è cambiata l'importanza che la società tributa alla missione e al sacrificio degli astronauti, e questa è la scoperta più raggelante, che si fa strada in Hal insieme al ritorno dei suoi ricordi dell'orrore dello spazio e del trauma dell'addestramento.
Si può dire in effetti che questo romanzo "fantascientizzi" un'esperienza tristemente nota, e tristemente comune negli anni in cui Lem lo scrive: il trauma del reduce, che torna a casa dopo la guerra, carico di esperienze che gli rendono distante e quasi incomprensibile il mondo civile. Il quale, da parte sua, accoglie chi ritorna dalla guerra con un misto di paura e indifferenza, perché avrebbe voglia di dimenticare ogni cosa, mentre la presenza del reduce e il suo chiaro spaesamento risvegliano continuamente il ricordo doloroso (e per alcuni imbarazzante o colpevolizzante) degli anni di guerra.
La sensazione più terribile provata da Hal (o forse da chi legge) è quella di parlare la stessa lingua di chi lo accoglie, che però in realtà non è più la stessa lingua: le parole suonano allo stesso modo ma arrivano da mondi lontanissimi tra loro, e così i dialoghi del romanzo risultano alienati, scombinati, senza senso, perché ognuno segue il proprio filo ma non riesce a costruire con l'altro nulla di davvero significante.
Pure interessante la puntigliosa descrizione del mondo futuro, che presenta tratti sinistramente ben delineati: da scienziato e filosofo della scienza, Lem si fa profeta e coglie le promesse avvelenate della tecnologia che, parafrasando un vecchio proverbio, "non si fa servitrice se non per diventar maestra": una società in cui ogni cosa esce da un muro, in cui basta premere un bottone per ricevere beni e servizi di ogni tipo, in cui non esiste più il denaro e con una puntura alla nascita si viene vaccinati d'ufficio contro ogni aggressività e impulso che sia meno che amichevole, è una società mostruosa. All'astronauta ancora imbevuto di cultura machista non basterà scambiarsi qualche cazzotto di nascosto con il compagno di missione, perché la mostruosità non sta nella mera mancanza di violenza, ma nel suo semplice occultamento, nella rigida separazione "in classi" che mantiene quella umana nella bambagia ma riserva ai robot, così servizievoli e insensibili, un destino che, in una sola scena al centro del romanzo, fa tremare le vene dei polsi a chiunque, invece, una sensibilità l'abbia ancora. (E richiama in modo raggelante, e sicuramente voluto, il destino dei milioni di internati nei campi di concentramento, il cui ricordo in quegli anni era ancora vicinissimo e al centro di dibattito. Molto interessante in questo senso l'intervento del curatore in postfazione. La traduzione è dall'originale polacco).
Ritorno dall'universo è insomma un romanzo denso di implicazioni, la cui lettura apre più fronti di riflessione oltre a lasciare emozioni contrastanti e diversi tarli per la testa; non è il romanzo più riuscito di Lem, e presenta anche alcuni difetti (la lentezza e difficoltà dell'entrare nella storia, la rappresentazione dei personaggi femminili un po' stereotipata), ma il suo valore speculativo insieme ai dilemmi che tocca ne fanno certamente una lettura raccomandata.
Vale la pena, inoltre, di addentrarsi in questo percorso faticoso in cui tutto sembra incomunicabile, per godere poi delle ultime pagine, dove una decisione repentina dello sperduto protagonista ci regala il disvelarsi di un ritorno a casa intenso e struggente.
1 commenti
Aggiungi un commentoSì all'inizio è un romanzo un po' straniante, ma poi si capisce benissimo; è il primo libro di Lem che ho letto (me lo portò mio padre a sorpresa, di ritorno da un viaggio fuori città); dico solo due parole a riguardo: romanzo splendido.
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