Jenny è una giovanissima soccorritrice volontaria che presta servizio sulle ambulanze…

 

Da pochi mesi Jenny ha perso il padre, ma – caparbiamente – ha voluto riprendere quello che crede essere il suo ruolo in tutta questa storia della pandemia.

Così, mentre sta nevicando sulla città, si ritrova ad osservare – il naso quasi appiccicato al gelido vetro del mezzo di soccorso – la prospettiva delle lunghe scie di cristalli ghiacciati, colorati di blu elettrico dalla luce dei lampeggianti.

Le richiamano alla mente gli effetti speciali di quei vecchi ed ingenui film di fantascienza anni ‘60 che un tempo (secoli prima?) amava vedere alla televisione sul divano di casa, proprio insieme al suo papà: “Diario personale, data stellare 202101.23, la nostra navetta, la Uss Resilience, sta effettuando una missione di soccorso verso un gelido pianeta…”

L’ambulanza monta gomme invernali, tuttavia l’autista guida piano: è in attesa di ricevere istruzioni dalla sala operativa, l’indirizzo di un ospedale che abbia ancora un posto disponibile per il paziente a bordo.

Con l’imposizione del coprifuoco, per strada non c’è quasi nessuno…

Tutto inizia con una palla di neve…

È un colpo sordo sul parabrezza a interrompere il flusso delle sue riflessioni.

Un’automobile sorpassa l’ambulanza e poi frena, le ruote che slittano.

Altri due veicoli si affiancano. C’è gente sulla strada.

Per l’equipaggio di soccorritori è difficile percepire cosa stia succedendo: sguardi perplessi, domande concitate, l’autista che impreca una litania irripetibile.

Jenny, d’istinto, apre il portellone e scende – Dio che freddo su questo pianeta! – ed è bersagliata da altre palle di neve.

All’inizio sembra quasi un gioco, tutte quelle persone mascherate come per carnevale.

Ma bloccare un mezzo di soccorso? – Andiamo ragazzi, nemmeno i peggiori pirati delle galassie arrivano a tanto!

Tuttavia non è affatto una burla, quando quei volti deformati le si avvicinano, le strappano la mascherina filtrante che indossa, le urlano in faccia parole incomprensibili.

Quindi tentano di salire attraverso il portellone posteriore dell’ambulanza per dimostrare che a bordo non c’è nessun paziente.

Jenny osserva, paralizzata, il telo di plastica della barella di bio-contenimento che viene squarciato.

La fuga degli assalitori nella notte.

La neve che continua a cadere…

 

Poi un colpo di tosse secca

Il test molecolare è positivo e Jenny si ritrova in quarantena.

La prima settimana passa tra aspirine, mal di testa, qualche telefilm rivisto in streaming sul computer.

Strani echi che attraversano le stanze di una casa piccola e adesso troppo vuota.

L’inquietudine inizia a farsi strada con la storia del cibo: è sempre stata amante della vita, ma ora tutto è ora così insipido, si ritrova a pensare, amareggiata dal fatto che persino quella crostata che tanto le piaceva cucinarsi, le restituisce un vago sapore metallico.

E così passa, nel giro di poco tempo, dalla negazione incredula alla rabbia profonda.

Ma gridare e spaccare oggetti non le serve per trovare un compromesso con la sua condizione e si rende conto, ben presto, che l’appartamento assomiglia sempre più al sito di un naufragio cosmico. Del “suo” naufragio verso la depressione.

Poi è il respiro che diventa difficile, un po' come camminare su di un pianeta dove l’atmosfera è rarefatta e l’ossigeno della tuta spaziale sta terminando.

- Maledetto virus alieno!

La saturazione, dice il manuale che ben conosce, è “un indice del livello di ossigenazione dell’emoglobina presente nel sangue: in condizioni fisiologiche in un paziente sano si aggirano intorno al 98%”. E la sua, di saturazione, Jenny si rende conto che ha iniziato a rilevarla in maniera compulsiva, troppe volte nel corso di quelle interminabili giornate, inizia a scendere verso la soglia critica del 90%.

Parole come “ipossiemia” e “ossigenoterapia” diventano drammaticamente concrete, come è la corsa verso l’ospedale, una procedura a lei familiare, solo che questa volta Jenny “viaggia di dietro”…

I medici e gli infermieri di turno sono gentili, ma…

Indossando i dispositivi di protezione individuale gli operatori sanitari sembrano tutti la stessa persona.

Voci che parlano di sindrome da “distress respiratorio acuto” e di “ventilazione non invasiva”.  

- Per il momento. - Le suggeriscono occhi stanchi e preoccupati dietro le visiere appannate.

Le viene calato un dispositivo CPAP, una sorta di casco spaziale trasparente.

Jenny non riesce a dormire, sente il sibilo dell’ossigeno ed il suono del respiro che si fa pesante.

E, nel delirio, crede di essere su di un pianeta ad alta gravità, qualcosa che le costringe forte il petto: “Diario personale, data stellare 202101.31, sono bloccata su Geminus IV, in attesa che arrivi  la missione di soccorso. I nativi sono ospitali con me, ma il loro linguaggio è incomprensibile ed il traduttore universale è guasto…”

Adesso vorrebbe disperatamente parlare con qualcuno – le hanno lasciato il suo “comunicatore” personale – ma si è accorta di non averne la forza: all’inizio prova a scrivere brevi messaggi testuali, qualche emoticon, poi più nulla.

In queste condizioni estreme, certo ben al di fuori delle sue esperienze, alla gelida luce delle lampade al neon che illuminano la corsia, Jenny inizia a sperimentare la percezione di un tempo che si dilata in maniera irregolare, un po’ come succede agli astronauti che, per addestrarsi alle loro missioni, passano giorni in ambienti artificiali isolati dal mondo.

Questo è il suo momento peggiore, dove le ansie ed i pensieri ricorrenti iniziano a farsi strada. Vortici maligni della mente…

 

C’è una psicologa che assiste le persone nel “reparto covid” dove Jenny è ricoverata…

Non è infatti solo la malattia, la paura di morire – la visione della morte – ciò che la sfiora: c’è di mezzo un profondo senso di solitudine, ci sono le lunghe notti insonni, i suoni che filtrano attraverso il casco e che non la aiutano a dormire.

Oggi la sua nuova guida spirituale, come si è presentata, le ha proposto una sorta di terapia della mente, un training respiratorio per provare a rilassarsi.

“Auto-distensione”: così la chiama.

Jenny viene guidata dalle sue parole, come fossero istruzioni ricevute alla radio della tuta spaziale: decontrai i muscoli, senti la calma. Pesantezza, calore, cuore, respiro, plesso, fronte…

Nei lunghi giorni successivi i farmaci iniziano a fare effetto – o forse è il suo corpo che si sta abituando a questa atmosfera extraterrestre – il suo addestramento psicologico continua però e si fa più difficile.

Parole nuove per una concentrazione ancora difficile da trovare: “elicitare” un colore da associare alle immagini, richiamare alla mente un oggetto che sia per lei rappresentazione emotiva, ritrovare le persone significative sul piano affettivo, ricercare la concentrazione passiva.

Visualizzare un portale attraverso il quale ritrovarsi in un luogo familiare.

Quest’ultimo compito per Jenny è facile: conosce bene un ambiente sicuro (quel ponte di comando della sua navetta stellare, per lei un luogo reale quanto immaginario) dove poter ritrovare se stessa…

 

Sono passati alcuni mesi…

La storia di questa pandemia non è ancora finita, ma oggi Jenny è tornata alla vita di sempre.

Non è stato facile, almeno non all’inizio, non solo per gli effetti collaterali del virus.

Si, il fiato un po' corto le ricorderà sempre della sua missione su di un pianeta extraterrestre, tuttavia il vero problema, forse ancora più insidioso della malattia, è stato superare i disturbi dovuti all’agguato di quegli estranei alieni (o, per meglio dire, “alienati”) alla sua navetta spaziale/ambulanza.

Incubi ricorrenti, flashback di mani che le si avvicinano, i volti nascosti da inquietanti maschere.

La paura di non essere più capace ad eseguire i compiti di un tempo, anche quelli più semplici.

E ancora pensieri intrusivi, la frustrazione di sentirsi inadeguata al suo incarico.

Tutto a causa di quei pochi istanti durante l’aggressione all’ambulanza nei quali si è sentita disorientata

Ma Jenny si ricorda di essere sempre stata una ragazza testarda, proprio come gli eroi protagonisti di quel futuro hollywoodiano che tanto ammira.

Ogni volta che sente di vacillare, richiude gli occhi e, ritrovandosi nel luogo sicuro che ha imparato a visualizzare durante le sessioni di terapia in ospedale, rivive il suo trauma come se fosse un film.

Una narrazione, insomma, della quale lei è l’eroe protagonista, in grado di controllare il flusso degli eventi: le prime volte omette i momenti più dolorosi, ma alla fine riesce ad affrontare anche le emozioni più vivide, in una storia che parte dal passato e arriva al presente.

È così che, con il tempo, è riuscita ad indossare di nuovo la sua divisa rossa da soccorritrice.

Talvolta si sente ancora fragile, è chiaro, ma anche una persona migliore – resiliente pensa, sorridendo per l’ironia – in grado di affrontare le future missioni che l’attendono e che non saranno tutte così facili come una avventura nello spazio immaginario…