Partiamo da lontano. L'anno è il 1975. In Giappone, un uomo che passerà alla storia come un genio assoluto del fumetto e dell’animazione, scrisse un manga a tematica mecha dal titolo Jeeg robot d'acciaio, con i disegni di Tatsuya Yasuda. Stiamo parlando di Go Nagai, considerato uno dei più importanti mangaka di sempre. Le sue opere hanno segnato la storia moderna del fumetto con l'introduzione dei mecha, enormi robot guidati da piloti posti al loro interno, quali Mazinga Z (1973), Il Grande Mazinger (1974), Goldrake (Grendizer in originale, 1975) e, per l'appunto, Jeeg Robot d’acciaio. La storia di quest'ultimo inizia con il risveglio dal sonno millenario dell'antico popolo Yamatai, governato da Himika e dai suoi tre comandanti: Ikima, Amaso e Mimashi. A contrastarli interviene Hiroshi che, grazie alla campana di bronzo inserita nel suo corpo, diventa invincibile e acquista la capacità di trasformarsi nella testa di Jeeg, un robot potentissimo progettato da suo padre, il professor Shiba.

La serie, prodotta dalla Toei Animation, è composta da 46 episodi di 22 minuti ciascuno ed è stata trasmessa per la prima volta in Italia nel 1979.

A poco più di quarant'anni siamo in Italia. Enzo Ceccotti entra in contatto con una sostanza radioattiva. A causa di un incidente scopre di avere un forza sovraumana. Ombroso, introverso e chiuso in se stesso, Enzo accoglie il dono dei nuovi poteri come una benedizione per la sua carriera di delinquente. Tutto cambia quando incontra Alessia, convinta che lui sia l’eroe del famoso cartone animato giapponese Jeeg Robot d’acciaio.

Quella che abbiamo appena descritta è, invece, la trama di Lo chiamavano Jeeg Robot, film italianissimo scritto da Nicola Guaglianone e Menotti, diretto da Gabriele Mainetti e interpretato da Claudio Santamaria, Luca Marinelli, Ilenia Pastorelli, Stefano Ambrogi.

Il film è un omaggio all'anime di Nagai, ma anche il tentativo di creare una sorta di via italiana al cinefumetto supereroistico.

Verrebe da chiedersi: perché proprio un “Supereroe italiano”?

“Perché – ha risposto il regista del film Gabriele Mainetti – se è vero che, guardandoci indietro, non scorgiamo uno storico fumettistico in cui personaggi mascherati si sfidano a suon di super poteri per decidere il destino del mondo, è altrettanto vero che, a queste storie, non siamo insensibili. Da amante dei generi penso che quello supereroistico rappresenti la sfida più complessa e pericolosa.”

Gabriele Mainetti, romano classe 1976, è attore, regista, compositore e produttore. Con il suo ultimo cortometraggio, Tiger Boy (2012), ha ottenuto diversi riconoscimenti in Italia e all'estero. Tra questi ricordiamo il premio come Miglior cortometraggio ottenuto al Flickerfest in Australia nel 2013 e il Nastro d'Argento vinto nel 2013 in patria. Tiger Boy ha inoltre trovato posto nella short list, assieme ad altri 9 progetti concorrenti, per la Nomination all’ Oscar – categoria “Live action short” – dell'86a edizione degli Academy Awards. Gabriele Mainetti è anche conosciuto per il corto Basette (2008), che ha partecipato ad oltre 50 festival. Lo chiamavano Jeeg Robot è il suo primo lungometraggio.

Mainetti è stato consapevole, durante la realizzazione della pellicola, che questa sfida, come ha definito lui il film, comportava anche un rischio: l'imitazione che scade nel ridicolo. Rischio che possiamo dire non è stato corso per Lo chiamavano Jeeg Robot.

“Fare un buon film per me, – ha aggiunto Mainetti – significa raccontare con originalità. E quando ti avventuri in un genere che non ti è proprio, il rischio di scadere in un'imitazione è dietro l'angolo . È per questo che non abbiamo voluto raccontare le avventure di un superuomo in calzamaglia. Non avremmo avuto il tempo necessario per aiutare lo spettatore a sospendere l’incredulità. Dovevamo perciò convincerlo a credere dall’inizio. Come? Con le verità che ci appartengono, tangibili in personaggi ricchi di fragilità, che spero riescano a trascinare per mano lo spettatore in un film che, lentamente, si snoda in una favola urbana fatta di superpoteri.”

Ma quale è stata la molla che ha fatto scattare la voglia di intraprendere il percorso che ha portato alla realizzazione del film?

“Ho realizzato Lo chiamavano Jeeg Robot con l'intento di dar vita a un film fatto di diversi generi armonizzati tra loro. Durante il montaggio mi sentivo come un funambolo senza la rete di protezione. Con l'arrivo progressivo delle musiche tutto mi appariva più definito e cominciavo a sentirmi sicuro. Per me la colonna sonora in un film è una presenza costante: c'è persino quando non avvertiamo gli strumenti emettere suono. Il silenzio non è altro che una pausa musicale, il direttore d’orchestra continua a battere il tempo e l’organico fa il suo ingresso solo quando l’immagine ne ha davvero bisogno.”

Dopo Il ragazzo invisibile di Gabriele Salvatores, arriva Lo chiamavano Jeeg Robot, film che sembra continuare a tracciare una strada per una via italiana al cinema dei supereroi. Ci saranno altri che seguiranno questi due coraggiosi film?