Ma non me, che rimango a guardare trasparente nella distruzione.Vedo rovine svettare post-gotiche ai lati della strada nera di sangue anonimo, prima che tutto tremi e si cancelli nell’onda d’urto. Poi, il silenzio.

Il silenzio brilla in polvere e spesse e lacerate sono le ombre impresse ovunque.

Ombre morte, dai contorni umani, racchiudono echi di grida amputate.

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I piedi sospesi nel vuoto, rimango a guardare ciò che rimane del palcoscenico, pensando al sogno assurdo della notte scorsa: mi trovavo dentro uno specchio, circondata da una città bombardata simile a questa, nel momento della sua totale distruzione.

Ero e non ero presente, allo stesso tempo.

Cerco di mettere ordine nelle idee, ma è difficile. Non riesco nemmeno a ricordare dove abbia dormito.

La volta del teatro non è del tutto crollata, ne rimane un porzione sopra di me che sono seduta su una balaustra, a venti metri dal suolo. Sotto, il golfo mistico è invaso di rovi, la pioggia filtra fra le pietre che sostengono il mio trono proteso nel vento.

E c’è questo anello.

Lo sollevo di fronte, vi guardo attraverso: lo skyline liquoroso della città implosa è un immenso ricamo disfatto contro il cielo, racchiuso nella minuta area circondata d’argento che stringo fra pollice ed indice.

Mi volto da nord a sud, inquadrando con il mio improvvisato monocolo porzioni di macerie, nuvole e pioggia.

Poi, qualcosa attira il mio sguardo.

All’interno dell’anello, il profilo sventrato di palazzi collassati sembra essere stato provocato dall’impatto di un corpo in traiettoria discendente, proveniente da ovest.

Il vento mi soffia un po’ di pioggia sul viso. Discosto l’anello, lo metto in tasca, continuo a guardare  laggiù, in attesa di ricordi e maree.

Il sole. Il vuoto. L’esplosione. Il silenzio. Prendere fiato per gridare. Il vento che spezza le urla, rade al suolo edifici. Le fiamme che si incollano addosso. Il sangue che sgorga, spruzza da pelle che carbonizza senza bruciare. Indosso una divisa da ufficiale. L’artiglio brilla argenteo, come il sottile, aderente esoscheletro che segue ogni curva del mio corpo. Mi sono quasi fatta ammazzare su uno sputo di pianeta, anni-luce lontano da qui, per diventare quello che sono (ero?).

Per le allucinazioni di un Oracolo folle, mi ascolto morire.

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Mi sveglio di soprassalto e mi trovo sul lettino di un tatuatore.

Il suo ago freddo segue il disegno delle vene e non gliene frega niente se mi sono addormentata. Lo guardo disegnarmi addosso la cartografia della mia rete vascolare, osservo i suoi muscoli, stimolati da tecno-proteine al limite della tenuta epidermica, seguire con movimenti precisi ogni dettaglio della mia pelle sottile.

Il dolore è quasi solletico, mentre dal polso mi penetra d’inchiostro, su, fino all’incavo tenero del gomito.

Appoggia l’ago sul piano ingombro di siringhe sporche, poi si allontana: lungo il mio avambraccio scende una lacrima densa, dove il rosso si sporca di una pigra spirale nera.

Un lavoro da macellaio.

Corrotta da fame e sete, la mia è mente obnubilata da sogni gravidi, per cui… non riesco a ricordare come né perché sia qui.

Strafatta di non-so-cosa e livida nella mia disperazione.

- Sono sola, stanotte» mormoro, mendicando amore.