Henry Stanton era arrivato sul lavoro con qualche minuto di ritardo, tutta colpa di un posteggio che non riusciva a trovare, era entrato di corsa nell’Istituto e, mentre salutava il collega cui doveva dare il cambio, si era rapidamente infilato il camice, che ora gli stava scomodo perché l’aveva abbottonato sfalsato.La parte più interna dell’Istituto ospitava file e file di grandi scaffalature sulle quali, come in una sorta di via di mezzo fra una fabbrica ed un archivio, erano collocate delle grandi bocce di vetro di forma cilindrica. Dentro ciascuna boccia, librata in una soluzione di liquido nutritivo, c’era una cosa rosea, tondeggiante, dall’aspetto molliccio: un cervello. Di fianco ad ogni boccia, collegato ad una serie di elettrodi coi fili che entravano dentro la boccia fino ad infilarsi nella carne rosea dei cervelli galleggianti, c’era un monitor, la parte più esterna di un oscilloscopio digitale che ne rilevava i segni vitali, le onde cerebrali che, per sicurezza, erano anche registrate sulla bobina di un elettroencefalografo da un pennino automatico.

Su ogni boccia era applicata un’etichetta in caratteri alfanumerici. Quella più vicina recava la scritta: «0316ANDREW34EDWARDS761.»

Henry Stanton lo sapeva bene, come tutti quelli che facevano il suo lavoro: in un mondo sovrappopolato, affamato di risorse, dove era richiesta a ciascuno la massima produttività, per gli anziani, per i non produttivi, semplicemente non c’era più posto. Conservare in vita i loro cervelli liberati da corpi deboli, afflitti da svariate patologie ed invalidità, senescenti, era una soluzione che molti consideravano crudele ma era, per così dire, una crudeltà pietosa. Henry Stanton aveva visto dei filmati girati nelle antiche case di riposo, dove gli anziani il più delle volte illanguidivano nella depressione, nella solitudine, nel senso d’inutilità, nella macabra attesa del momento in cui la morte sarebbe venuta a prenderli.

Meglio, molto meglio, troncati i contatti con il mondo esterno, vivere ciascuno nel proprio mondo di sogno fino a quando la degenerazione delle cellule cerebrali non avesse portato al trapasso definitivo.

Forse era un’inevitabile deformazione professionale, ma dopo un po’ si finiva per personalizzare, per ri–personalizzare i cervelli nelle bocce. Alcuni di loro a volte mostravano attraverso i picchi aspri ed irregolari dei tracciati cerebrali, di essere in preda ad incubi violenti o angosciosi, ed allora occorreva immettere sedativi nel liquido nutritivo. Andrew Edwards, che era uno dei “pazienti” preferiti di Henry Stanton, no. I tracciati rivelavano che i suoi sogni erano sempre sereni ed appagati. Doveva essere stato una gran brava persona da integro, venne da pensare a Stanton; gli sarebbe piaciuto poterlo conoscere quando aveva ancora delle mani da stringere.

Ma naturalmente, quel che rimaneva di Andrew Edwards era solo una cosa rosea e molliccia immersa in una boccia di liquido nutritivo.

Henry Stanton si guardò attorno: file e file di scaffalature contenenti ripiani su ripiani di cervelli dentro bocce di vetro. D’improvviso la prospettiva di ciò che, lo sapeva benissimo, prima o dopo sarebbe toccato anche a lui, non gli parve per nulla allettante.