L’obiettivo - a volte dichiarato, a volte defilato - era quello di far maturare il genere e tirarlo fuori dal “ghetto” editoriale e di costume in cui si era impantanato. Anche se questo ambizioso risultato non fu pienamente raggiunto, non c’è dubbio che vennero frantumati i paradigmi della fantascienza classica e furono introdotti temi forti, al fine di proporre una diversa visione della fantascienza tanto agli appassionati tanto a quella “critica con la puzza sotto il naso”.

Un ulteriore momento di riflessione sul genere - per autori, critici e lettori - arriva nella metà degli anni Ottanta, con l’uscita di Neuromante di William Gibson e nel 1986 con l’uscita dell’antologia Mirrorshades che segnano la nascita del Cyberpunk, ossia di una science fiction incentrata sugli incubi metropolitani di un futuro non troppo lontano dal nostro e amalgamati con le nuove tecnologie informatiche e la cultura pop. A fare da portavoce al movimento c’è anche qui, non a caso, una rivista, la Isaac Asimov Science Fiction Magazine, che ospita a più riprese gli autori più significativi del movimento letterario: Bruce Sterling, Rudy Rucker, Lewis Shiner, John Shirley, Pat Cardigan, Tom Maddox, Marc Laidlaw, James Patrick Kelly, Greg Bear e Paul Di Filippo.

Siamo ad un nuovo punto di partenza per la science fiction, ma ciò che conta è che il genere – per dirla con Evangelisti – si è definitivamente assunto il compito di raccontare la realtà che ci circonda ed in questo senso mantiene viva la sua funzione di specchio della stessa, ma anche strumento d’ndagine.

Proviamo a spiegare come, prendendo spunto dal concetto di “non-luogo”, coniato dall’antropologo Marc Augé, nel suo saggio Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità (Eleuthera, Milano 2005). Con questo neologismo, lo studioso francese intende spazi che si frequenta in modo fugace, dove non ci s’incontra, dove l’identità di ognuno di noi viene incessantemente messa in discussione e ci si inoltra in una massa anonima. Quali sono questi luoghi? Le autostrade, gli aeroporti, i mezzi di trasporto, i centri commerciali, gli ospedali e i musei. Posti che sono sempre identici a se stessi, in qualsiasi parte del mondo e che proprio per questo ci tranquillizzano, dopo un primo momento di smarrimento.

Luoghi che appartengono comunque all’immaginario collettivo: sono cioè comuni a gran parte della cultura e della società occidentale.

Lo stesso si può dire della fantascienza e proponiamo un accostamento con il concetto di non-luogo: è uno spazio dell’immaginario collettivo, non fisico, ma che si può definirlo un non-luogo “della mente”.

Se l’immaginario collettivo si può definire come una determinata struttura sociale prodotta in epoche diverse e da diverse società, alla cui creazione partecipano tutti, ma di cui nessuno ne è in qualche modo proprietario, allora la fantascienza appartiene di diritto a questo immaginario. In altri termini, l’immaginario collettivo si pone come categoria fondante del rapporto tra il singolo individuo e la realtà circostante e consiste nella produzione di criteri di senso, di valori, di rappresentazioni a cui un’epoca o una società fa riferimento e fonda le proprie categorie fondamentali e le pratiche individuali e collettive.

Analizzare tale immaginario significa interrogare il rapporto tra la vita soggettiva e quel complesso di rappresentazioni, raffigurazioni e immagini che tutti contribuiscono a creare e a valorizzare, e che poi finiscono, quasi a nostra insaputa, col costituirci come singoli e come comunità. 

Di conseguenza, interrogare la science fiction, studiarne la storia e le sue dinamiche significa interrogarsi sulla società e sulla postmodernità.

La science fiction - un genere tipicamente novecentesco e ritenuto, insieme al Jazz, l’unica vera forma culturale autoctona degli Stati Uniti d’America – è, a nostro avviso, anche uno straordinario strumento sociologico per indagare sulla cultura e sull’immaginario che da esso ne è derivato, e per tale motivo anche della società postmoderna. Ma ancora di più, la fantascienza si configura essa stessa come cultura del postmoderno, pur provenendo dall’era moderna.