Ma proprio questa è la caratteristica principale di un personaggio che ha molto spesso abbandonato l’immagine di eroe nazionale tutto d’un pezzo, figlio del personaggio di propaganda inizialmente creato nel 1941, un po’ simile al Capitano Kirk della serie classica di Star Trek, che spesso abbiamo trovato nella serie principale e ancora più nel suo ruolo di leader dei Vendicatori. Il sogno democratico di Capitan America, molto spesso, si è trovato a cercare un’affermazione anche contro l’America reale. A partire dalla rinascita avvenuta nel 1964, Jack Kirby e soprattutto Jim Steranko già nel 1969 lo pongono a contatto con la nuova sensibilità di quel decennio. E saranno molti i momenti di qualità e audacia, grazie a personaggi come l’afroamericano Falcon o (in negativo) lo pseudo-eroe sciovinista e violento USAgent; fra i tanti autori, menzioneremmo almeno due sceneggiatori come Steve Englehart e Mark Gruenwald.

È la sua diversità, lentamente, a essere messa in discussione. E negli anni 90, la sua stessa vita viene salvata grazie a una trasfusione del sangue del suo arcinemico, il criminale nazista Teschio Rosso. Anni prima, lui stesso aveva cercato di sfuggire al suo personaggio, assumendo l’identità del misterioso Nomad: il peso di un’identificazione con la nazione che diventava insopportabile. All’alba del millennio, la lotta contro i nemici dell’America trovava un campo di battaglia all’interno stesso del suo corpo: allo stesso tempo, nemici esterni e nemici interni diventano sempre meno distinguibili.

Dal 2001, con le coloratissime storie di Dan Jurgens e Bob Layton, la pressione del passato diventa un tema centrale. Alla fine di quell’anno, l’arco chiamato America Lost è il culmine (con l’ennesima rievocazione della morte dell’antico amico Bucky). Ci sono i soliti avversari, il Teschio Rosso e il Seminatore d’Odio che parlano di un’America sul punto di implodere, e rivelano l’intenzione di creare un esercito di schiavi, ma c’è anche il traffico illegale di immigrati latinoamericani. E Dan Jurgens e Stuart Immonen, nel bellissimo Keep in Mind, cominciano a fornire presagi di morte.

Centrale nel 2002 è la miniserie The Enemy di John Ney Rieber; i disegni di Cassaday iniziano la storia con l’11 settembre, per presentare un sogno americano sempre più inacidito, incapace di fornire fonti e ragioni di vita: fra Dresda e il terrorismo attuale, torna lo spettro di una guerra fredda in cui forse il ruolo dell’America non è esattamente commendevole.

E dopo Ice di Chuck Austen e Jay Lee (2003), troviamo Steve Rogers, in un arco scritto dall’inglese Dave Gibbons e disegnati da Lee Weeks, a rivivere la propria autobiografia, a partire dal ritrovamento in un blocco di ghiaccio, in un’America nazista simile a quella di The Man in the High Castle di Dick. A seguire, Homeland di Robert Morales e Chris Bachalo porta Capitan America a confrontarsi con la prigione di Guantanamo: l’America dei carceri speciali e della sospensione del Bill of Rights (e il titolo riecheggia lo Homeland Security Act) non gli appartiene, lo vede estraneo.

Nel 2004, nella serie Captain America & the Falcon, lo sceneggiatore afroamericano Christopher Priest (solo un omonimo dello scrittore di fantascienza inglese) invia Cap per gran parte della storia a Guantanamo (Two Americas), e si rievoca la strage di Oklahoma City. Nel conflitto fra le “due Americhe”, quella dei sogni ideali e fumettistici, quella degli incubi reali, al Capitano spetta nuovamente il compito di ritrasformare gli incubi in sogni.

Ma il compito è sempre più difficile. E l’operazione più eversiva è quella di un altro afroamericano, lo straordinario Kyle Baker di Truth: Red, White and Black (ancora inedita in italiano), con la storia “segreta” di un Capitano nero.

L’anno 2005 è il momento del nuovo ciclo, il volume 5 che ricomincia da 1 la numerazione delle avventure di Cap, di Ed Brubaker e Steve Epting. Significativamente, il primo arco si intitola Out of Time, fuori dal tempo, esaminando la difficoltà di uscire dal momento formativo e traumatico della Seconda Guerra Mondiale. D’altra parte, la nuova lotta col Teschio ha lo scopo di prevenire attacchi terroristici nelle grandi città occidentali. Intensissimi sono i flashback della memoria che lo riporta ai tempi con Bucky, personaggio che in The Winter Soldier acquisisce nuova vita.

E anche le storie alternative non sembrano più fornire sbocchi alternativi salvifici. L’interludio intitolato House of M, disegnato da Lee Weeks, vede un’altra ucronia che inizia con un Roosevelt intento a chiudere la Seconda Guerra Mondiale con un’alleanza coi sovietici (e Cap alla vigilia di un matrimonio con un’ex spia russa collaboratrice della Resistenza francese). Presto però vediamo Cap sottoposto alla Commissione per le attività mutanti, versione fantastica della Commissione per le attività antiamericane del nostro maccartismo. È il senatore McCarthy in persona (e forse Nixon) a interrogarlo, a metterlo sotto accusa perché non collabora alla paura anti-mutante. Seguiamo poi il suo allunaggio (nel 1955!) nel nome della pace fra umani e mutanti, e poi l’avvento dell’inquietante figura di Magnus (il nostro Magneto, dittatore capace di belle parole, coperto dalle operazioni segrete dello SHIELD). Ma appunto, senza nessuna consolazione finale.

Mentre scriviamo, abbiamo accanto un curioso, eccentrico e straordinario fumetto d’autore spagnolo, Dove nessuno può arrivare di David Rubín (Tunuè, 2007), con un improbabile, lirico eroe dalla maglietta con le squame: un chiaro omaggio al Capitano. Un’altra versione del sogno.

Per quanto ci riguarda, il sogno di Capitan America ha a che fare con i fumetti che la Corno ci ha fatto scoprire negli anni 70, e che abbiamo continuato a leggere fino a quelli odierni tradotti dalla Panini. Non sappiamo se qualche parte dell’America reale, non necessariamente quella “ufficiale”, avrà ancora modo di considerarlo una risorsa ideale. Onestamente, però, speriamo di sì.