La nostalgia del futuro è un sentimento che è stato associato spesso ai libri di Ray Bradbury. Leggendo Quando le radici di Lino Aldani per la prima volta oggi, nel 2009, a trentadue anni di distanza dalla sua uscita, le pagine in cui mi sono immerso me lo hanno richiamato a più riprese.

Come nelle storie del grande scrittore dell’Illinois, il padre della fantascienza italiana non si risparmia quando si tratta di prendere in contropiede il lettore: piuttosto che impelagarsi in ardimentose estrapolazioni tecniche e scientifiche, lo intrappola sulla Terra, proiettandolo verso uno dei futuri più cupi e oscuri possibili, in cui rivive distorto il miraggio amplificato del boom economico.

Non c’è niente di straordinario nel mondo di Arno Varin e forse è proprio questo a rendercelo tanto credibile e familiare. Spersonalizzato, grigio, piatto e privo di stimoli culturali e politici, è una vetrina vuota che espone la mercificazione a buon mercato di tutte le cose che rendono la vita degna di essere vissuta, dagli ideali ai sentimenti. È un mondo di plastica e Arno, giunto a 28 anni, comincia a sentirselo stretto. Decide così di mollare il lavoro e abbandonare Roma alla volta di Pieve Lunga, minuscola località dell’Oltrepo Pavese che ha dato i natali ai suoi genitori. La piccola comunità di reduci del vecchio paese, un manipolo di sopravvissuti che non hanno abbandonato le poche case rimaste in piedi dopo gli interventi di riqualificazione rurale del governo, lo accetta a braccia aperte, benedicendolo come una speranza per il futuro del villaggio. Ma se una vita senza compromessi è ancora possibile, ha pur sempre un suo prezzo da pagare e molto presto tutti dovranno fare i conti con la dura realtà.

Chi è al corrente anche solo di vaghi accenni sulle vicende biografiche dell’autore, avrà già colto in queste poche righe un preciso parallelo con le vicende personali di Aldani. Originario di San Cipriano Po’, dopo diversi anni trascorsi a Roma l’autore si ritirò dall’attività di insegnante di matematica e nel 1968, all’età di quarantadue anni, vi fece ritorno con la famiglia per dedicarsi alla stesura dei romanzi e dei numerosi racconti che costituiscono il suo ricchissimo opus letterario.

Arno Varin ne ricalca le orme, ma fino a un certo punto. Forse l’elemento di maggiore interesse della lettura è proprio il parallelo tra le due esperienze e il loro confronto, tenuto conto che i primi 9 capitoli del romanzo furono scritti da Aldani nel 1966, quando si trovava ancora “bloccato” nella capitale, alle prese con il lavoro di docente, mentre i successivi 6 furono composti nel 1977, dopo il suo ritorno nelle terre natali che fanno da sfondo a gran parte del romanzo. Si avverte questo contrasto, tra il desiderio e la speranza del ricongiungimento con una terra vagheggiata nella prima parte del libro e un moto di critica per le aspettative disattese nella parte finale.

La scrittura di Aldani è come di consueto sorretta da una decisa carica politica e civile, ma il suo narrare non si arena mai nelle secche della discussione ideologica fine a se stessa. Anzi, il romanzo riserva pagine di autentica poesia, specie nella prima parte, quando il mondo rurale è ancora un progetto poco più che ozioso, che va acquistando man mano concretezza e vigore nei pensieri di Arno. I richiami alla poesia di Federico Garcia Lorca con i suoi paesi perduti “nell’Andalusia del pianto” non sono casuali, ma rappresentano una scelta mirata e riuscitissima nell’evocare l’atmosfera da sogno, quasi incantata, di panorami bucolici sospesi in un idillio perpetuo (“La sera è distesa/ lungo il fiume./ E un rossore di mela/ sui tetti tremola”).

Al compimento della fuga di Arno nel suo paese perduto, la poesia della ribellione lascia presto il campo a un crudo naturalismo, che va a fare da contraltare alla grottesca e ironica rappresentazione della vita di città. Aldani costruisce uno sfondo sociale per la vita urbana di Arno, mette in scena i vuoti rituali della società urbanizzata e denuncia i limiti di questo mondo del prossimo futuro: il lavoro insignificante e inutile che serve unicamente ad alienare le attenzioni dei cittadini da altre occupazioni, l’aridità delle relazioni umane, la catastrofe ambientale prodotta dall’ingigantimento delle città e dallo snaturamento della campagna. L’Italia è retta da un governo di coalizione nazionale di stampo vagamente socialista, ma ormai incolore, e anche questo fa parte dello sfondo. La grandezza dell’autore sta nel darne una percezione compiuta attraverso poche, essenziali pennellate: e basta un accenno alle centrali nucleari e alla seduzione dell’atomo, congiunto al mancato utilizzo dell’energia del sole, per consentire al romanzo di scavalcare in un salto i trent’anni che lo separano dalla "sua" epoca e arrivare fino a noi.

Contrapposta alla frenesia della vita urbana è l’esistenza a Pieve Lunga: dimessa, fatta di poche gioie e di un’autarchia che sfiora l’eroismo, ma anche di privazioni, al limite dell’ascetismo. Malgrado le delusioni e i sacrifici, Arno sosterrà fino in fondo la sua scelta di vita con un gesto di ribellione contro la forza cieca di un progresso che ha ormai perso ogni valenza di sviluppo ed è stato ridotto dalla burocrazia a un puro e semplice processo di violazione della natura.

Consapevolmente, Aldani decide di non sfiorare nemmeno minimamente il dato scientifico o tecnologico. Il suo mondo del futuro è il mondo degli anni ’60 e ’70 portato avanti di qualche decennio e trasfigurato nella semplice amplificazione dei suoi problemi: dall’urbanizzazione selvaggia all’approvvigionamento delle risorse alimentari ed energetiche. Ed è un mondo che vive nell’eco della campagna in cui Arno decide di riparare, un piccolo mondo antico lontano dal caos della metropoli, della cui influenza tuttavia è destinato a risentire. La minaccia dell’autostrada echeggia significativamente La Guida Galattica per gli Autostoppisti di Douglas Adams che, è bene ricordarlo, è di due anni successivo rispetto a Quando le radici. Ma in Aldani il furore della gioventù, arrabbiata perché tradita nelle sue aspettative, non è stemperato dall’ironia del maestro britannico: la piccola insurrezione di Arno Varin parla di un eroismo minimale e ci ricorda la possibilità dei cambiamenti di cui ciascuno di noi, nel proprio piccolo, può rendersi protagonista.

Quando si allontana dalla città, il libro prende una piega verista, a cui tuttavia non resta estraneo il senso di Aldani per il fantastico. In effetti, la presenza degli zingari, gli autentici alieni di questo romanzo che gli anglosassoni chiamerebbero di speculative fiction, imprime una svolta verso una declinazione molto personale di quella sensibilità che possiamo ascrivere al realismo magico. Ma il tocco di Aldani è comunque sempre così distinguibile da esigere una classificazione su misura. Gli zingari rappresentano un’alternativa possibile all’immobilità e al congelamento. Il loro nomadismo non si configura come una negazione delle radici del titolo, richiamate dallo stesso protagonista proprio in contrapposizione al loro stile di vita, ma una formula attraverso cui perpetuare un equilibrio tra il cambiamento e la tradizione. Arno, che arriva a Pieve Lunga tutto sommato ancora afflitto da un’immaturità che va oltre il dato puramente anagrafico, grazie a loro conquisterà una consapevolezza maggiore del mondo e – possiamo dirlo – una diversa coscienza dell’umanità.

Nella carovana dei rom, che percorre come un’ossessione fantastica le pagine più folgoranti del libro, rivive trasfigurata la fascinazione dell’autore per i loro rituali e costumi, che troveranno ampio risalto nell’ultimo dei suoi romanzi, Themoro Korik (Elara Libri, 2007), dato alle stampe poco prima di morire.

A differenza di Eclissi 2000, la magistrale novella del 1979 (ristampata sempre da "Urania Collezione" nel numero 44 della collana), in cui l’estrapolazione fantascientifica era lo strumento per imbastire una denuncia spietata dei limiti del pensiero rivoluzionario applicato al sistema politico, in Quando le radici non c’è traccia di un dato puramente tecnologico. La padronanza di Aldani nel maneggiare una personalissima fusione di realismo magico e fantascienza sociologica, filtrandola attraverso quel sentimento di nostalgia del futuro che traspare da ogni sua immagine, è piena e va ad ascrivere il romanzo nel novero delle opere sicuramente più significative nell’evoluzione di una via italiana al fantastico e al futuro. Al di là delle distinzioni di genere, con il suo particolarissimo "realismo di anticipazione" Aldani ha saputo meritarsi un posto di primissimo piano tra i grandi autori italiani della seconda metà del Novecento.

Quando le radici è l’opera che ci dà la misura della sua maturità ancora oggi, continuando a parlare ai lettori con slancio immutato, prestandosi come e forse meglio di ogni altro suo lavoro a una lettura ricca di sorprese anche e soprattutto da parte del pubblico meno avvezzo alla fantascienza.

Esaurita l’edizione da edicola di “Urania Collezione”, Quando le radici, come l’intera opera di Aldani, resta presente nel catalogo della Elara, incluso nel volume Millennium (Biblioteca di Nova SF* n. 14).