Quando qualche giovane, distaccato e “alternativo” dandy del terzo millennio proclama spavaldamente che “lo stile è tutto!”, il più delle volte si esprime in chiave di self-marketing e intende soprattutto promuovere la propria immagine squisitamente visiva con, magari, cappottoni steampunk dal bavero rialzato, bizzarri anelli alle dita stile boss moscovita e ai piedi moonboots con allacciature complesse controintuitive, ma invece Alberto Abruzzese, illustre massmediologo e sociologo della comunicazione con approccio storico-culturale, quando nel suo fondamentale primo saggio del 1973, “Forme estetiche e società di massa” si pronunciava sullo stile, si riferiva eminentemente a quello letterario, che nasceva con Baudelaire alla fine dell’Ottocento in contrapposizione, secondo lo studioso, alla scelta di un Victor Hugo, in prosa, di mantenere una voce più fusionale col grosso pubblico, tanto da farsi pubblicare a puntate sui feuillettons. Il maggiore poeta “maledetto”, infatti, dando libero ma altamente qualitativo sfogo alla propria irriducibile soggettività, da un lato marcava il territorio unico dell’artista eroico, dall’altro consapevolmente instillava nel suo crescente pubblico il germe di una immedesimazione allora ancora inedita con la sensibilità malata o almeno sovreccitata dell’artista solitario, che però coglie in maniera incomparabilmente più profonda dell’uomo comune quello che viene chiamato l’esprit du temps. Naturalmente Abruzzese in quella sede non pensava minimamente a James Graham Ballard come pietra di paragone, ci sentiamo di assicurare, tuttavia le qualità dello scrittore inglese a nostro giudizio possono tornare a far riflettere su quanto – per l’appunto – uno stile “sorvegliato” di gran gusto estetico, se abbinato ad una sensibilità per ciò che di inquieto fermenta nella propria contemporaneità, vada a comporre una formula destinata ad avere un potere ipnotico sui lettori più ricettivi ed esigenti.

Sono proprio queste due tra le principali caratteristiche di Ballard, che – com’è noto – anni dopo il suo ritorno in Inghilterra da giovanissimo con la famiglia dopo la loro prigionia in un campo di internamento giapponese durante la Seconda Guerra Mondiale (vicenda biografica narrata nel suo “L’impero del sole”, portato sul grande schermo da Steven Spielberg), scelse la sua residenza definitiva non a Londra ma nella sua provincia, a Shepperton, di cui fece un punto d’osservazione privilegiato sulla vita borghese fuori dai grandi centri. Ecco, proprio la territorializzazione postmoderna, con il decentramento di molti luoghi produttivi in zone industriali off e la costruzione di un senso d’identità, per i residenti, che sia legato alla quiete un po’ anonima di sobborghi appositamente costruiti, è al centro di questo romanzo squisitamente anomalo, “Il condominio”, in cui l’autore coniuga appunto la sua conoscenza diretta degli ambienti di buon profilo socioeconomico collocati urbanisticamente fuori rispetto alla City, ed il suo stile che resta di riconoscibilissima eleganza anche mentre ricerca l’inquietudine, racconta l’alienazione, si compiace di deviazioni dalla norma più o meno sopite.

La storia del concetto di metropoli, così cruciale per la nascita e lo sviluppo della modernità, ha condotto infatti, com’è sotto gli occhi di tutti, ad uno stadio in cui le promesse iniziali di una realizzazione dei propri desideri a patto di sapersi muovere sullo scacchiere urbano secondo le regole dei diversi contesti si sono rovesciate in un modello di città-prigione rigidamente strutturata in incasellamenti funzionalistici in cui l’incontro fortuito e il movimento sociale sono negati come è pure sconsigliabile l’attraversamento casuale dei confini interni da parte dell’incauto flaneur. E chi ancora cerca di imporre la propria soggettività alle rigide mappe delle gated communities o è un artista che fa resistenza attiva oppure, più spesso, è proprio un deviante in cerca di emozioni primitive che lo aiutino a riaffermare una materialità su cui si senta ancora di aver presa. Le classi medie o medio-alte, invece, sono più orientate ad apprezzare le divisioni, preoccupate come sono di difendere le loro enclaves, ma Ballard ci mostra dall’interno che anche loro sono attraversate da un sottile senso d’inquietudine dovuto al loro isolamento, agli apparati di sorveglianza che li privano del contatto con l’Altro da sé ma che li tengono affondati in un vuoto pneumatico che può diventare cella d’incubazione per vizi o smanie. Fedele alla sua celebre dichiarazione d’intenti con cui, distaccandosi da tutta la più recente produzione letteraria fantascientifica, affermava che la via più consona ad una new wave della SF fosse l’indagine non dello Spazio ma degli inner spaces, degli spazi interiori, e che il vero pianeta alieno è la Terra, lo scrittore inglese è divenuto un punto di riferimento per il postmodernismo proprio insistendo ossessivamente sull’ossessività con cui le società occidentali si son venute costruendo il loro panorama mediatizzato in cui l’anima è appiattita in un gioco di superfici, specchianti o grigie come il cemento.

In questo modo, un approccio visionario che rischiava di restare confinato ad un genere ormai rigidamente codificato e francamente un po’ stagnante come quello fantascientifico si piegava con questo autore all’osservazione dei modi anamorfici con cui l’individuo e le masse della contemporaneità si rapportano all’ambiente che si son costruiti, non lesinando in effetti allucinati che però assumono così il valore di metafore davvero rivelatrici sul nostro presente. In “Il condominio” Ballard non rinuncia ad una categorizzazione della tipologia di abitanti dell’enorme edificio residenziale, un vero e proprio grattacielo, ma, anziché parlare di classi che ormai possono apparire il residuato vetusto di marxismi superati dal neocapitalismo trionfante, propone una tripartizione che tutto sommato è all’interno di una classe privilegiata, in cui il gradino più basso è occupato da tecnici specializzati nel mondo dei media, hostess, eccetera; e attribuendo a ciascuna di queste sottoclassi una fascia di piani all’interno del condominio: dai più bassi ai più alti, fino all’attico, ma lasciando spesso l’impressione che si tratti comunque di benestanti.

E se non vogliamo nasconderci la persistenza delle logiche di classe pur nelle mutate condizioni sociali, possiamo senz’altro attribuire a certe classi superiori, come tipico, l’atteggiamento blasèe che già Georg Simmel ne “Le metropoli e la vita dello spirito” individuava come antidoto alla deriva identitaria del sé in un ambiente, quello metropolitano, appunto, che moltiplicava a dismisura gli stimoli. Una certa apatia, l’indifferenza unita ad un altezzoso distacco, erano già da allora la traccia di una prospettiva evolutiva della percezione nel mutato, tentacolare, spazio urbano. Una solitudine indotta ma poi vissuta in questo modo permette di far rimarcare lo scarto relazionale tra l’individuo e la massa: ““Ed è solo l’altra faccia di questa libertà il fatto che a volte non ci si senta da nessuna parte così soli e abbandonati come nel brulichio della metropoli: qui come altrove, non è detto affatto che la libertà dell’uomo si debba manifestare come un sentimento di benessere nella sua vita affettiva”. Una personalità refrattaria alle sollecitazioni esterne sembrerebbe essere connaturata al cittadino: “Questa incapacità di reagire a nuovi stimoli con l’energia che competerebbe loro è proprio il tratto essenziale del blasée: un tratto che, a ben vedere, già ogni bambino della metropoli mostra in confronto ai bambini di un ambiente più tranquillo e meno stimolante” (Simmel, 1903). Ecco il Ballard de Il condominio: “Il grattacielo aveva creato una nuova tipologia sociale, una personalità fredda e antiemozionale, insensibile alle pressioni psicologiche della vita di condominio, con esigenze minimali in fatto di privacy e capace di prosperare, come una macchina di nuova generazione, nell’atmosfera neutra. Era il genere di abitante che si accontentava di restare seduto nel suo carissimo appartamento a guardare la televisione senza audio, aspettando che i suoi vicini commettessero un errore” (…) “nella totale autosufficienza di una vita che, non avendo bisogno di nulla, non poteva patire delusioni” (pag. 40). La seconda delle tre frasi non è che una visualizzazione del tipico abitante delle gated communities di cui parla Emiliano Ilardi quando indica la spersonalizzazione ed alienazione in cui sceglie di vivere nelle metropoli chi è ossessionato dal problema della sicurezza e si sente al sicuro solo se protetto da recinzioni sorvegliate da telecamere e guardie private, negando a prescindere ogni logica di interscambio con l’alterità.

In Il condominio di Ballard non è concesso uno spazio molto ampio ai dialoghi, eppure o forse proprio per questo si coglie nettamente, nel distacco e nella rarefazione, l’eleganza decadente con cui i personaggi lasciano trasparire nella prima fase solo le conflittualità latenti, e poi, quando iniziano gli scontri, anche i loro pensieri più morbosi. Eccone un esempio: “Il suo appartamento non è accanto al pianerottolo degli ascensori?”, le chiese Laing. “Dovrà barricarcisi dentro”. “E perché mai? Io lascio la porta spalancata”. Dato che Laing sembrava perplesso, soggiunse: “Non fa anche questo parte del gioco, forse?”” E più oltre la stessa donna enuncia una sua convinzione perfettamente postmoderna e anti-ideologica e anche anti-idealistica: “Solidarietà è fare a pezzi un ascensore vuoto”.

Nel romanzo di Ballard questa sorta di distacco post-aristocratico rivela la sua natura di atteggiamento indotto perché i protagonisti della storia, che sono tre, uno per ognuna delle fasce reddituali e di prestigio in cui è suddiviso in altezza l’enorme edificio, dimostrano di sapere come destreggiarsi nelle schermaglie relazionali che hanno la loro logica strategica; eppure si avverte, sempre sotteso, un loro senso di insoddisfazione, l’aspirazione sottotraccia a qualche forma di dominio, che in ultima analisi prende, in Wilder, il documentarista televisivo dal fisico non a caso possente, la forma di un anelito a conquiste che diano soddisfazione alla propria parte animale, la tensione verso manifestazioni materiali e adrenaliniche che siano lo sfogo della istintualità troppo a lungo repressa.

Dopo un primo tentativo che si conclude con una umiliazione, Wilder torna protagonista in altri capitoli uno dei quali si intitola “Verso la cima”, e sul piano simbolico e diremmo preconscio – tanto importante in Ballard – è significativo assistere all’uso e poi all’abbandono delle “insegne” professionali e tecnologico-mediali da parte di Wilder: la telecamera e poi il registratore audio. Quest’ultimo viene utilizzato come strumento feticistico di appropriazione dei suoni insoliti prodotti dagli inquilini in quelle condizioni di barbarie. Ma va anche notato come Ballard descriva come sofisticati e non banali anche gli slogans tracciati sulle pareti dei corridoi interni, e come, nonostante lo stato di inselvatichimento in cui son caduti i condomini, essi continuino a “produrre grandi quantità di rifiuti”; come a dire che anche quando un borghese lascia via libera ai suoi impulsi repressi non rinuncia ad una certa quota di classe indicata anche dalla mole dei suoi consumi e delle sue scorie. Solo Wilder davvero imbocca una strada di ultimativa regressione, tanto che ad un certo punto “gli sembrava che le parole riempissero le cose con dei significati sbagliati” ed il senso per noi è proprio l’opposto: per quanto filosoficamente si discuta sul linguaggio come virus, l’animalità condurrebbe facilmente ad una dislessìa. E d’altronde “comportandosi di proposito in modo grossolano, come un giovane delinquente che scherza con una maitresse inebetita”, si rischia che la dimensione del grottesco prevalga sull’ordine ortodosso delle cose.

Ecco, a proposito dell’ordine, Royal, l’architetto che ha disegnato il grattacielo scegliendo di riservarsi uno dei due appartamenti all’attico, ricorda un suo vecchio progetto di una voliera a grattacielo e riflette su quanto l’edificio da lui realizzato e in cui abita sia simile ad un “gigantesco zoo verticale con centinaia di gabbie accatastate l’una sull’altra”.

È indicativa, per cogliere il carattere di utopia metropolitana fallita di questo colossale condominio, la metafora organicistica di pag. 44: “Gli ascensori che pompavano su e giù per le lunghe colonne assomigliavano agli stantuffi nella cavità di un cuore, Gli inquilini che si spostavano per i corridoi erano le cellule in un sistema di arterie, le luci dei loro appartamenti i neuroni di un cervello”; un tipo di parallelismo non insolito per Ballard, già dai tempi del suo fondamentale La mostra delle atrocità.

Ma non manca una riflessione più realistica sui motivi per cui anche qui in Europa, come già tipicamente negli USA sempre secondo Ilardi (al netto delle radicali differenze nella concezione dello spazio tra i due continenti), il grattacielo potrebbe diventare una nuova frontiera (verticale) dell’abitare, anche se contemporaneamente contraddetta dalla vicinanza promiscua di tanti soggetti in uno spazio che anche se è circondato dall’aria resta “drammaticamente” compresso; ecco lo spunto, da pag. 57: “Le prove accumulate in vari decenni gettavano una luce critica sul grattacielo come struttura sociale attuabile, ma da un lato il buon rapporto qualità-prezzo per l’edilizia pubblica, dall’altro gli alti margini di profitto per l’edilizia privata facevano sì che si continuassero a spingere nel cielo queste città verticali, contro le reali esigenze di chi poi le abitava”.

E certi squarci sull’inconscio, il dubbio sollevato sul significato dell’assenza di umorismo e sul comportamento fin troppo acquiescente e controllato degli inquilini, forse anche un po’ folle, nonché la visione psicologistica morbosa di certi aspetti della realtà, “minacciosi come i contorni di una psicosi latente”, emergono poi in modo chiaro a proposito di certi personaggi che cedono di fronte alla piega allucinata assunta dal contesto, come la moglie di Wilder, le cui contusioni e sbucciature sembravano “elementi di un complesso sistema di cosciente automutilazione, un tentativo di riconquistarsi il marito” mentre già “i muscoli del suo volto minuto erano stati scossi da un’irregolare sequenza di tremori, come fossero dei saltimbanchi che cercavano di atterrare al posto giusto”; o, in misura minore, la sorella di Laing, che ha l’impressione che il fratello non si renda pienamente conto delle novità: “Era la tipica supposizione da sorella maggiore martirizzata, costretta durante la loro infanzia a badare ad un fratellino molto più piccolo”. Che ora, non essendo riuscito compiutamente ad approfittare del “segreto, ma non per questo meno concreto, movimento di partner coniugali” – la dimensione erotica in chiave di sdoganamento progressivo delle perversioni è determinante, nel romanzo – cerca il contatto con lei anche se gli aveva sempre ricordato la madre. E non c’è da stupirsi troppo, dunque, se a p. 116 si riferisce che, nel novero delle aggressioni e delle zuffe sui pianerottoli e sulle scale, “Adrian Talbot, l’amabile psichiatra del ventisettesimo piano, era stato sommerso d’urina mentre saliva le scale”.

Si può ricordare al proposito che Ballard da giovane iniziò gli studi in Medicina a Cambridge con l’intento di diventare psichiatra, prima di essere folgorato dall’”Ulisse” di Joyce e decidere di impegnarsi nella scrittura, e anche che, a fronte di un suo sostanziale abbandono del filone fantascientifico nei suoi romanzi degli anni ’80, proseguì, nei racconti, su temi fantastici o fantascientifici senza lesinare in sfumature di psicopatologie che dimostrano anche il fascino esercitato su di lui da Simbolismo e Surrealismo.

Tornando al condominio, begli esemplari di cani e gabbiani in libertà sul tetto hanno la loro suggestiva parte di contorno nella scenografia del degrado, specie nell’avvicinamento al teatrale scontro finale ma, come i paramenti della codificazione borghese della vita, e le vitali bolle d’abbeveramento estetico (dischi e audiocassette), vengono rinnegati, rispettivamente mangiati, sepolti sotto le assi del pavimento e allontanati a calci quando si trovano tra i piedi.

E dunque, nella zona residenziale di Londra in cui diversi grattacieli vengono costruiti, proprio con l’ottica contemporanea delle riterritorializzazione delle metropoli, il primo ad essere inaugurato, con vista sul Tamigi, conta 40 piani, ospita circa 2000 persone e offre ai suoi occupanti tutta la comodità ed il lusso ultramoderno di un “non-luogo” (Marc Augèe): una banca, un supermercato, un ristorante, una scuola e ben due piscine. È un microcosmo non tanto micro, e quasi autosufficiente, ma soprattutto esclusivo se si vive negli ultimi 10 piani.

Eppure, ciò che rende davvero vivi i protagonisti, in questa parabola dall’insegnamento pericoloso, è il contrasto fra la gran classe dei partecipanti alle feste e lo stato di cadente abbandono dell’edificio, e ancor più la considerazione che “di fatto, l’unica cosa che riusciva a galvanizzare le loro menti appannate era il ricorso alle più rumorose espressioni di ostilità irrazionale”, fatto salvo il ricorso alle armi, per tacito accordo, e contemplando invece quella che era ormai la vera illuminazione del grattacielo: “il lampo metallico prodotto dal flash delle polaroid, quella radiazione intermittente che registrava i vari momenti della tanto attesa violenza per un successivo piacere voyeuristico”, che porta ad interrogarsi sulle “specie deviate di flora elettrica” che sarebbero potute nascere dalle strisciate di rifiuti esposte a quella nuova fonte di luce. Ecco, appunto; tornando al nostro appunto iniziale, ciò che nutre la narrazione è la gelida e inquietante poesia ballardiana della nuova decadenza, pronta a manifestarsi in modo liberatorio, che il singolo ormai dispera di poter ottenere nelle normali e omologanti condizioni: “Laing aveva una mezza idea che l’insonnia, di cui tanti suoi vicini avevano sofferto, fosse una specie di preparazione inconscia alla successiva emergenza” (p. 104). Una poesia che può essere offerta dalla sublimazione della spazzatura, da parte di quei pochi, appartenenti alle classi e ai piani superiori, che non avevano assunto l’abitudine di lanciare i loro sacchi di immondizia fuori dalla finestra: “Probabilmente si tenevano stretto il loro pattume non tanto per paura di attirare l’attenzione del mondo esterno, quanto per il bisogno di restare attaccati a ciò che era loro, di circondarsi con le mucillagini di pasti lasciati a metà, bende insanguinate, bottiglie rotte ma un tempo piene del vino che li aveva ubriacati, tutte cose che si potevano sempre intravvedere attraverso la plastica semitrasparente”. Rigurgiti dell’inconscio nel grattacielo residenziale.

Trentanove anni dopo la sua pubblicazione, datata 1976, Il condominio di Ballard è divenuto un film per la regia di Ben Whetley (e sceneggiato dalla moglie di quest’ultimo) con il titolo – che poi era quello originale dello scrittore inglese – di “High Rise”, con il sottotitolo in italiano La rivolta, mentre il termine è un sinonimo di skyscraper, grattacielo.

La soda ed intensa sostanza letteraria del testo naturalmente non poteva essere resa sullo schermo, date le diverse specificità dei media, perciò, come sempre, la vita interiore articolata attraverso le sfumature delle frasi non si poteva pretendere che fosse veicolata, data la vocazione del film a mostrare e non a descrivere. Tuttavia, tale letteralismo o diretta corrispondenza tra l’immagine e ciò che comunica viene qui modulato con un come degno di nota.

Il regista, autore di pellicole radicali come Kill List e Sightseers, ha ottenuto con questo lavoro una candidatura a London Critics; ebbene, pur essendo alle prese con una storia preesistente scritta con una prosa densa e dal notevole fascino come quella di Ballard e non con un scrittura funzionale di una sceneggiatura qualunque, da rimpolpare, ravvivare, Whetley compie un lavoro ragguardevole nel rendere patinate le immagini senza scivolare nel cliché ma trovando la cifra dell’originalità con una certa attenzione ai dettagli, come le forme architettoniche degli interni con le colonne di cemento grezzo che spuntano dovunque; il quadro del surrealista Max Ernst (in realtà un’imitazione) nell’appartamento principesco dell’architetto Royal; il riferimento al bordello, nascosto da qualche parte nell’edificio, lanciato provocatoriamente dalla sensualissima Charlotte Melville durante un coito in terrazzo col protagonista; le confezioni rese anonime dei prodotti del supermercato interno al grattacielo; la diva che presto interpreterà in pratica la parte di se stessa come attrice “tristissima e disperata che vive sola in un condominio”, come dice di lei l’imbronciata giovane cassiera che la supera di molto in sottile erotismo; l’accostamento dei bambini ai babbuini che “lanciano merda nei loro rituali d’accoppiamento” mentre i ragazzini vengono incoraggiati, ad una festa nei piani inferiori, a lanciare cucchiaiate di pappa giù dal terrazzo; e poi il cinismo dello slow motion utilizzato per l’impatto di Munroe, gettatosi dal balcone, sul cofano azzurro di un’automobile, ed in generale la temperatura sottilmente raggelante della patina di lusso. Il riferimento filmico ideale è sicuramente Kubrick e non ci sono dubbi che il mistero inquietante delle riflessioni su un incombente o forse già realizzato ed estenuante futuro tecnologico non può essere affidata solo ad una stilizzata battuta ma è giusto visualizzare durante la stessa, già nel prologo, il cadavere di qualcuno che non è sopravvissuto alla “rivolta” e che ha la testa dentro la scocca fracassata di un televisore a tubo catodico. Eppure c’è chi ha considerato il film un’opera irrisolta che riesce paradossalmente a tradurre con originalità il modello letterario ma non a mostrare compiutezza sul piano squisitamente cinematografico.

Invece, come detto, il film presenta numerose soluzioni interessanti; un altro esempio: Laing ha nel film una medietà diversa da quella che appare nel romanzo, ha maggiori potenzialità e ciò lo rende da subito interessante per l’architetto, che nel loro primo incontro, nel suo studio, gli chiede il permesso di utilizzare una sua battuta in stile ballardiano – chiaro ammiccamento intertestuale dal regista allo scrittore.

Il sanguigno Richard Wilder invece (interpretato da Luke Evans) pronuncia, rivolto all’ambizioso, giovane, prestante e algido dottor Laing, pur con le sue scatole del trasloco non aperte… contenenti forse “sesso e paranoie” come lui stesso suggerisce (un razionale Tom Hiddleston), una frase che compendia le caratteristiche del blasée in termini succinti, in cui solo l’ultimo accenno, quello alla mutazione antropologica, riflette a dovere la conturbante ricerca sociologico-espressiva di Ballard: "Gli unici veramente pericolosi sono i tipi riservati come te. Immuni alla pressione psicologica della vita condominiale. Professionalmente distaccati. Vigorosi. Come una specie avanzata in un habitat neutrale".

E, tornando alle differenze di classe, Helen, la moglie di Wilder, si lamenta che ai piani superiori nessuno voglia sapere niente di chi se la passa male, mentre infatti la moglie di Royal, in genere persa dietro a nostalgie su cui il marito neanche intende indagare, compiange i poveracci per essere ossessionati dal vil denaro.

L'ultima creazione del grande architetto Anthony Royal (interpretato da un sempre magnetico Jeremy Irons), il futuristico grattacielo di brutale cemento a vista che risponde all’estetica anni ’70 – l’epoca in cui fu scritto il libro – da creazione dei sogni da cui risulta perfino immotivato uscire si trasforma in un coacervo da incubo regressivo in cui follia e violenza esplodono, dopo la mondana ma faticosa latenza, in un modo evidentemente più pesante di quanto lascia trasparire la suggestione della pagina scritta, e va ricordato che nel romanzo di Ballard il proposito del documentarista televisivo Wilder di filmare una inedita indagine sulla vita dell’high-rise che sia anche la cronaca della sua titanica ascesa lungo i piani del condominio fallisce miseramente proprio perché i media – tranne la parola finché non cede il passo ai grugniti – sono paradossalmente declinanti dinanzi alla degenerazione materiale,  oltre che morale, simbolo della malaugurata rovina della civiltà occidentale, immolata sull’altare dell’unico ordine economico al mondo, in cui “un sistema di libere imprese è necessario ma non sufficiente (…) la libertà economica è vera libertà senza essere soffocati dalla tutela dello Stato”, come sentenzia la voce di Margaret Thatcher, nell’esergo contenuto nell’explicit del film.