Il classico, un po’ prevedibile e “farlocco” serial killer torna sul luogo del delitto, forse non sempre ma quel tanto che basta per soddisfare i suoi rimpianti, sfidare gli investigatori e infine… lasciare tracce che lo portano ad essere beccato, smascherato e inchiodato. Lo stesso capita a certi lettori, quelli dello zoccolo duro della fantascienza ma anche in generale della letteratura di ricerca; capita cioè che molti ritornano sugli stessi autori consacrati, perché sono stati innovativi e capaci di trasmetterci emozioni non facilmente ripetibili. È anche vero che il lettore prevedibile cerca letture, tra quelle proposte da quell’autore, che ripercorrano la sua traccia più brillante e profonda, tematicamente e stilisticamente. Ma veniamo al caso specifico: forse io non sono tanto prevedibile perché anziché cercare del grande William Gibson, padre del cyberpunk, un romanzo che ricalcasse le atmosfere del celeberrimo Neuromante, autentica bibbia del genere, o gettarmi sui due sequel: Mona Lisa Cyberpunk e Giù nel cyberspazio (ho anche questi ovviamente nelle mie fornite scaffalature), sono andato a ficcare il naso nell’odoroso cartaceo di un volume comprato di seconda mano (ad un prezzo non economico ma sostenibile) che è il primo di una trilogia successiva, e che sapevo essere considerato un romanzo con cui Gibson, con la sua riconosciuta sapienza, ci offre uno sguardo meno visionario ma focalizzato sul presente. Anche se per la precisione si intende: focalizzato su quanto il nostro presente già racchiuda, come molti dicono, le suggestioni del cyberpunk e le mostri in dimensioni che noi tutti siamo abbastanza attrezzati a cogliere ma che l’autore sviluppa in spunti che illuminano ancora meglio la nostra contemporaneità “come se la vedessimo per la prima volta”, come dice Neil Gaiman non in una “famigerata” manchette (fascetta editoriale) ma in un più discreto pseudo-adesivo promozionale in una copertina minimalista che ritrae un DVD anonimo in altrettanto anonima custodia.

E allora: dovendo coniugare l’intensità postmoderna e un po’ allucinata del cyberpunk con un’investigazione lucida e anche informativa di questo oggi, Gibson raccoglie con sagacia la riflessione risalente già agli anni ’80 sulla “civiltà dell’immagine” e parte dalla pervasività e dalla crucialità del marketing nel mondo occidentale, e lo fa però in modo piuttosto sorprendente, non tanto perché adotta come protagonista una giovane donna attraente e americana (anche l’universo cyberpunk è ricco di eroine forti e affascinanti), ma soprattutto perché l’autore si gioca qui un geniale paradosso: la ragazza, Cayce Pollard, è in realtà patologicamente allergica ai marchi commerciali! Eppure è proprio per questo che lei li “sente” in modo particolare, li ricorda tutti, li distingue e in particolare ha il suo più fruttuoso talento nella capacità di capire ad una prima intensa occhiata se un nuovo marchio disegnato da un ufficio grafico può “funzionare” o meno, e i suoi superiori tanto si fidano di lei che le riunioni sono molto brevi, bastano poche sue parole. Lascerò al lettore il piacere di passare in rassegna lungo la narrazione tutti i marchi che vengono citati, immersi (come nel cyberpunk) nei panorami urbani, nella vita privata della protagonista, nella moda, negli affari. Ma intendo far rilevare che tutto ciò, come insegna il mio ex professore di Antropologia Culturale (delle società complesse) Massimo Canevacci, fa parte del mindscape, oltre che del paesaggio fisico: le griffes e i nomi delle multinazionali fanno parte delle nostre mappe mentali, ben oltre i manifesti pubblicitari e le rutilanti insegne al neon; sono indicatori di identità, un’identità che può essere, e di fatto è, fluida, anche contraddittoria, mutevole anzi meticcia, dimostrando ad ogni passo sia nel reale che nel virtuale che le Grandi Narrazioni si sono sbriciolate in flussi inafferrabili di compresenze, di relativismi, di giochi semiotici ridotti spessissimo a puri segni-feticcio. E va tenuto presente che il cyberpunk e la società dell’immagine infatti fanno parte entrambi del cloud culturale che prende il nome di Postmoderno: Italo Calvino, il campione italiano di questo maxigenere su cui il dibattito sembra non spegnersi mai, ebbe modo di scrivere “…chi siamo noi, chi è ciascuno di noi se non una combinatoria d’esperienze, d’informazioni, di letture, di immaginazioni? Ogni vita è un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario d’oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili”.

In un mindscape, un panorama mentale, si sviluppano mutazioni, e la Pollard con questa sua peculiare patologia (addirittura!?) si erge a epitome di tutti quei professionisti che hanno un feel infallibile, una iperspecializzazione che li rende perfetti nerd, capaci di cogliere quel quid che alle aziende fa guadagnare milioni di dollari, mentre i comuni mortali, o coloro che hanno una specializzazione diversa, si chiedono “Ma come fa? Qual è la particolare “antenna” che li rende così ricettivi senza peraltro avere neanche il bisogno (o la capacità o la volontà) di verbalizzare una spiegazione dei loro infallibili responsi?” Indovinare in un dettaglio infinitesimo il germe del successo è una qualità per iniziati, anzi per demiurghi, per “neuromanti”, volendo, ma questo è un campo che non è fantascientifico ma reale, “il cuore del commercio”. Ecco perché questo romanzo ci dice tanto sull’oggi sbilanciato verso il domani

Cayce (sfiziosi i giochini di pronuncia che Gibson dissemina nel testo; ad esempio si chiarisce che Cayce si legge come il più comune Casey, e anche altri nomi si prestano a sofisticate e un po’ giocosamente pedanti gags) lascia la sua New York tra i preparativi descritti minuziosamente (per permettere a noi lettori di familiarizzarci con lei, con le sue idiosincrasie, il suo abbigliamento, i suoi accessori, scelti tutti con modernissima raffinatezza consapevole) per recarsi in quello che lei chiama ricorrentemente (altro tormentone) “il mondo allo specchio”: New York e Londra sono l’una lo specchio dell’altra, e si confondono pur senza toccarsi, in un incanto bizzarro con molti interscambi ed emulazioni reciproche. La guida inglese a destra è speculare rispetto a quella normale, ma, soprattutto, Pollard trova che le sottolineature delle differenze interpersonali di classe sociale che operano gli inglesi è altrettanto sgradevole e sconcertante della radicata e criminogena tradizione americana del libero possesso di armi. 

Lo scopo della giovane esperta di marketing è quello di svolgere uno dei suoi soliti compiti, ma stavolta c’è un business parallelo che le viene proposto da un suo boss verso il quale lei nutro fisicamente una sorta di attrazione-repulsione. Il business insolito, l’incarico particolare, ha a che fare con qualcosa che in un certo senso è nell’aria, e di cui lei ha già fatto esperienza, sul web, ma ad un livello più alto rappresenta un’altra importante dimensione della civiltà contemporanea: l’immateriale. Per essere più precisi, qui è in gioco qualcosa che – con mirabile sintesi progettuale nella struttura del romanzo – intreccia le dinamiche di internet con l’ineffabile plasmabilità dell’arte per immagini per eccellenza: il cinema! È dunque una forma ultraframmentata e iperdigitale, del cinema: una serie di sequenze che vengono pubblicate on line senza neanche dar modo di capire se trattasi di una serie narrativa ordinata o di gruppi di immagini in movimento sciolte le une dalle altre o addirittura casuali. Il boss di Cayce ha intuito che il brusio telematico degli appassionati di queste sequenze, registrato su appositi forum, uno dei quali è seguito dalla giovane professionista, può essere sfruttato per ricavarne grossi guadagni.

Il romanzo, a proposito dunque della sua struttura, ci propone un pressoché costante intersecarsi di figure secondarie ma necessarie allo sviluppo di una trama che, come da tradizione gibsoniana, è profondamente mondialista, ovvero specchiata nella globalizzazione. E se ad esempio l’ex fidanzato di Cayce, il regista di documentari Damien, ora in Russia per lavoro, le ha lasciato le a possibilità di soggiornare nel suo appartamento londinese, che nonostante le astuzie alla 007 versione homemadedella trentaduenne verrà violato in sua assenza da ignoti intrusi non ladri… nell’azienda potente per cui è chiamata stavolta a lavorare, la Blue Ant, lei entra sottilmente in conflitto con una tipa di origine italiana che mira ad un posto di rilievo in quella società: Dorotea Benedetti, che il titolo del capitolo ci presenta con franchezza come “La stronza”, e che infatti infligge un odioso dispetto alla Pollard. Tale dinamica però, tipica di un ambiente freddo ma competitivo, viene ad essere parte di un mosaico globale in cui i fronti sono tanti, e si potrebbe pensare che sia tutto interconnesso, ma la voce della saggezza (un ricordo del padre) suggerisce a Cayce di “lasciare spazio alle coincidenze”, senza credere che necessariamente ci sia un disegno unificatore, altrimenti si ricade nella apofenia. E lei parla spesso peraltro di serotonina, di cervello mammifero (istintuale), ha una frase tormentone che sintetizza un bizzarro episodio e che le serve come formula esorcizzante, e compare sulla scena del romanzo accusando il jet lag come un fenomeno che lascia l’anima sospesa all’indietro, rimasta arretrata altrove… – “(…) Le anime non sono abbastanza veloci, rimangono indietro, e all’arrivo devono essere attese come bagagli smarriti“.  Riesce tuttavia ad addomesticare i suoi vaghi disturbi e a mettere a distanza un tipo grazie a una gelida citazione di Eisenhower e perfino a difendersi ricorrendo alla violenza.

Hubertus Bigend, il potente tycoon della Blue Ant, e datore di lavoro della Pollard, lui che parla e guarda come se ogni affare che propone fosse già concluso e come se ogni interlocutrice fosse già andata a letto con lui malgrado non sia certo esteticamente perfetto, sembra però anche lui relativista, lanciando un messaggio a quel tipo di lettore che cerca da un libro di Gibson sul presente delle indicazioni per un futuro non troppo fantascientifico, ed il messaggio è scoraggiante proprio perché basato sulla fluidità della nostra attuale civiltà: “…adesso non abbiamo la minima idea di chi o che cosa abiterà il nostro futuro. In quel senso non abbiamo futuro. Non nel senso in cui lo hanno avuto i nostri nonni, o pensavano di averlo. Futuri culturali, interamente immaginati, erano il lusso di un’altra epoca, un’epoca in cui l’oggi aveva una durata molto maggiore. Per noi, come sappiamo, le cose possono cambiare così in fretta, con tale violenza, tanto in profondità, che il futuro nel senso inteso dai nostri nonni non ha abbastanza “presente”. Non abbiamo futuro perché il nostro presente è troppo mutevole.(…)” L’anima sarà pure immortale ma è umana, ed è un fardello scomodo e sofferente da portarsi dietro da una stazione a un aeroporto, in un mondo fatto di riflessi e in cui la vita delle elites è nel trascorrere senza più confini tra i diversi angoli del pianeta, spesso in aereo, con spostamenti frequenti.

E l’incarico insolito consistente nella ricerca dell’ignoto artefice delle sequenze digitali su cui sciama il brusio dei cyber-appassionati in cui Cayce stessa si è inserita un po’ oziosamente, è proprio un’occupazione perfetta per i tempi: cercare il senso riposto di schegge volatili e cavalcare l’onda di un interesse crescente verso le stesse, una subcultura virale che andrebbe sfruttata commercialmente, ma che intanto è zeppa di giochi d’identità fake e genderbait, tradotti questi ultimi come esche ormonaliavatar che ammiccano sessualmente fingendo di essere ciò che magari non sono, per attirare l’attenzione. Ma gli intrusi hanno usato il computer di Damien. Molto probabilmente la posta in gioco è più alta… Ma Damien non può aiutarla: intrattiene ormai con lei solo un rapporto informatico-epistolare un po’ adolescenziale, a parte quando le parla del suo lavoro bizzarro, anch’esso filmico, alla scoperta di resti funebri e residuati bellici in uno scavo a Stalingrado (teatro della durissima battaglia nella seconda guerra mondiale, com’è noto) che simboleggia una ancora concreta stratificazione temporale, per questo difficile da attingere. Altri personaggi sono deputati a servire la Pollard facilitandola nella sua ricerca e negli spostamenti tra Londra, Tokyo, ancora Londra, e Mosca, ma non c’è una vera guida, e quindi la protagonista è chiamata a confermarsi in gamba, da sola, e si destreggia in effetti con discreta disinvoltura, ma senza le malizie di una vera spia come forse la situazione, da romanzo quasi-cyberpunk, a questo punto richiederebbe. Mentalmente flirta con un nuovo personaggio, e spera di potersi fidare, dopo un suo intervento, ma questo Boone Chu risulta freddino, sembra essere stato posto lì nel plot per aiutarla, ma scompare e riappare senza mai dare certezze.

In questa condizione esistenziale, epitome della vita a inizio Terzo millennio, con la compressione spazio-temporale, il dominio dell’economia finanziaria e la qualità di simulacro à la Baudrillard della realtà riportata nel successivo web 2.0 (per non dire dello scorcio attuale avvelenato dall’epidemia che stiamo vivendo, che è un appesantimento del discorso) si galleggia, e ce la si può fare se si hanno delle buone qualità, ma quando le connessioni effettivamente in questa “Pattern recognition” (titolo originale dell’opera; “Riconoscimento dello schema”) si infittiscono pur senza rivelarsi del tutto, lei “non riesce più a trovare un nesso tra tutto ciò e la sua vita. O piuttosto adesso sta vivendo quella storia, la sua vita è stata abbandonata chissà dove, come una stanza da cui è uscita. Non è lontana, però lei non la abita più”.(pag. 297)

A questa vaghezza alienante fa da corollario e sottotema della storia la vicenda del padre della protagonista, Win Pollardun ex agente della CIA in pensione che si dedicava a un lavoro diverso, di rappresentanza industriale, scomparso misteriosamente a New York proprio l’11 Settembre del 2001, lasciando la moglie a cercarne tracce sonore fantasmatiche in vecchi nastri registrati, e la figlia e noi lettori alle prese, di nuovo, con un problema di definizione sia dell’immagine sia semiotica, specie nel capitolo intitolato “Singolarità”, in cui con mirabile e sapiente equilibrio ipnotico Gibson affianca all’enormità del fatto un suo corrispettivo minimale che è il simbolo di una fragilità poetica che lascia attoniti e sull’orlo paralizzato della commozione. Può anche essere la cesura epocale che stabilisce il relegamento del senso nel passato e che instaura un presente puro in cui la morte è tutto e niente, ma Gibson non si avvita in questi sofismi, preferendo restare sul rarefatto di istanti raccontati come in un anestetizzato rallenty.

Una pista possibile, su cui si lancia – pare – Boone Chu, è rintracciare il watermark in codice inserito nelle sequenze renderizzate, uno dei molteplici esempi di come Gibson, al solito, utilizza spunti tecnologici (in questo caso realisti) per dare corpo vivido e attuale alle sue narrazioni, anche se nel mondo reale non mancano, come alle origini del cyberpunk, i veri nerd che criticano i suoi romanzi perché il vero iperspazio o le vere interfacce non sono proprio come lui le descrive. 

Gustosi sono i veloci ma incisivi raffronti tra le parvenze da interzone urbana di Tokio, in stile Blade Runner, la più solida e austera Londra, e le magniloquenze architettoniche real-socialiste rimaste a dominare la scena della Russia di Putin e del potere oscuro degli oligarchi, con gli interni contrassegnati dal color marrone che non dà tregua, mentre di tanto in tanto compaiono imitazioni del graffitismo metropolitano anglosassone o losangelino, con la differenza che le lettere graficamente gonfiate sono in cirillico. Qualcuno, discutendo in precedenza con Cayce, sostiene che ormai sia tutto indistinto, ma lei ribatte che invece la sua concezione dello specchio è di differenze tra diversi modelli industriali. Forse non sarà così ancora tanto a lungo, ma ogni tanto c’è ancora il miracolo che si oppone alla lucida desertificazione omologante: la cosiddetta Crociata dei Bambini è lo sciamare dei giovanissimi nelle serate di Camden Town, a Londra, che nel ricordo di Cayce e di Damien si intreccia ad un fenomeno di resistenza alla gentrification, quella dei senzatetto di un ostello, pressoché fermi in mezzo al brulichìo dei giovanissimi; una presenza che disgustava gli agenti immobiliari che cercavano di vendere quelle case a nuovi più agiati proprietari e mandava a monte i progetti di rinnovamento socioeconomico della zona. Eccezioni. 

Di fatto, la riflessione sul tempo è più protagonista che non una giovane in gamba che fa la cool hunter, la cacciatrice di tendenze, e che in fondo non può essere un personaggio così hard boiled come quelli dei romanzi di Chandler o come il Deckard di “Blade Runner” o l’antieroe Case di “Neuromante”. Cayce (notare l’assonanza col character citato appena prima) è solo una ragazza chic che si cala in un gioco che diventa più grande di lei e che, trattandosi di un romanzo iperrealista e non cyberpunk o alla Burroughs, si trova esposta a pericoli più che altro potenziali. Sarà dunque che col cyberpunk si è sfondata la patina di sense of wonder brillante della vecchia fantascienza mostrando le megametropoli nel loro aspetto noir e sporco, sarà che mostrando il nostro presente-blob risucchia-tutto ci si ritrova a offrire una gamma di topoi del postmoderno, ma quel che conta è che questa letteratura, ed il vero mondo citazionista in cui il presente obnubila passato e futuro, si rispecchiano a vicenda.

“Il futuro è lì”, si lascia sfuggire Cayce, “che si gira a guardarci. Cercando di rintracciare un filo nel racconto che saremmo diventati. E dal punto dove si trovano loro, il passato dietro di noi non somiglierà per niente al passato che immaginiamo di avere adesso (…)” Questa diversa e più realistica malinconia è ciò che in “L’accademia dei sogni” sostituisce lo struggimento legato allo stato postumano.

Anche la questione delle sequenze digitali di cui gli internauti suppongono l’appartenenza o meno a un film vero e proprio, oppure no, rinvia alla sostanza da simulacro della civiltà nata in Francia nel 1820 con l’esposizione delle prime lastre eliografiche di Nicéphore Niepce, che iniziarono la rifondazione della materia sulla luce, prima che trionfasse l’immagine in generale e infine la pixelizzazione digitale, in attesa ora della next big thing.

La sezione conclusiva del romanzo, che ci porta negli scenari volumetricamente immani della nuova Russia, è quella che più ci affonda nel clima da spy story, ma è solo una finta dello scrittore: la apofenia, l’automatica osservazione di connessioni supposte come significative, l’illusione di senso che predispone alla percezione di trame occulte pericolose è entro certi limiti un dono, una capacità di connessione quasi da sensitivi, come la ipersensibilità usata a fini professionali da Cayce Pollard, e in effetti non è che le significatività percepite siano tutte infondate e che non ci sia motivo di temere, ma di fatto spesso questa capacità intuitiva è una trappola, così come dimostra questo romanzo che programmaticamente delude come thriller puro ma affascina come rielaborazione stilistica. 

Non riveleremo la situazione più spinosa in cui si ritroverà la protagonista in un luogo nella regione di Mosca, ma sia chiaro che l’obiettivo di questo romanzo è quello di far convivere l’avventura con importanti contenuti filosofici ed emotivi, come suggerisce il titolo in italiano, “L’accademia dei sogni” – niente di troppo duro, quindi – e anche quello originale, “Pattern Recognition”, traducibile alla lettera in “riconoscimento dello schema” ma anche in “modelli di pensiero”. Ed è questa la soluzione… all’enigma delle misteriose sequemze diffuse singolarmente on the net come un’operazione di guerrilla marketing; la ricerca ossessiva dell’aderenza a una forma… da parte di qualcuno. Sarà qualcosa che avrà un impatto emotivo sulla giovane protagonista tanto quanto lo avrà la definizione del destino di suo padre. In entrambi i sottotemi si coglie la poesia ipnotica e rassegnata di questa contemporaneità: tutto fluisce in modo così variegato, incontrollabile e incessante che anche i più grandi dolori, la singolarità e l’irrimediabile, ci si offrono come spettacolo, e noi tutti siamo spettatori di questa sostituzione della realtà con l’insustanziale, che a sua volta ci espone all’anaffettività, al contenimento delle emozioni, e al mero riconoscimento delle loro matrici, grande e triste metafora, così come il sofisticato giubbetto di Cayce è solo limitazione cool di un modello militare ormai introvabile, e così come lo scavo del suo ex fidanzato sul sito della battaglia di Stalingrado diventa un “coatto”, ironico, rito d’iniziazione per gli aiutanti della produzione del documentario. Nei substrati del rutilante mondo placcato di marketing c’è ancora, eccome, la dimensione bellica, il marciume, la corruzione, la speculazione cinica, ma questo è un romanzo che ne offre la consapevolezza solo negli interstizi – non a caso non sempre metropolitani ma talvolta periferici e sordidi, opachi, o ambienti riconvertiti nell’uso – in quello che invece per la maggior parte è un patinato e affascinante gioco di superfici, perfettamente orchestrato da un Gibson che è riuscito così a sfatare il mito del cyberpunk proprio mentre ce lo mostra incarnato nella quotidianità postmoderna.