L’appartamento di Joaz Banbeck, scavato nelle profonde viscere di una rupe calcarea, si componeva di cinque ambienti principali disposti su cinque livelli diversi. In cima c’erano il reliquiario e una camera di consiglio formale: il primo era una stanza di solenne magnificenza che ospitava i vari archivi, trofei e promemoria dei Banbeck, la seconda un salone lungo e stretto rivestito in legno fino all’altezza del petto e dal soffitto a volta intonacato di bianco, che si estendeva per l’intera ampiezza della rupe, in modo che le sue terrazze sovrastassero Valle Banbeck a un’estremità e la Via di Kergan all’altra.

Sotto vi erano le stanze private di Joaz Banbeck: un salotto e una camera da letto, quindi il suo studio e, infine, sul fondo, un laboratorio il cui accesso egli riservava esclusivamente a se stesso.

Si entrava nell’appartamento attraverso lo studio, una grande stanza a forma di L dall’elaborato soffitto a crociera al quale erano appesi quattro lampadari incastonati di granati. Adesso le lampade erano spente; nella stanza filtrava solo la grigia luce ovattata delle quattro lastre di vetro rifinito dalle quali, a mo’ di camera oscura, si potevano osservare diverse vedute di Valle Banbeck. I muri erano rivestiti da panelli di canne palustri lignificate; un tappeto decorato ad angoli, quadrati e cerchi bruni, neri e rosso scuri copriva il pavimento.

Al centro dello studio stava immobile un uomo nudo, coperto solo dalla fine chioma castana che gli scendeva a cascata sulla schiena e dalla torque dorata che gli cingeva il collo. Aveva i lineamenti aguzzi e spigolosi, il corpo magro; sembrava che stesse ascoltando, o forse meditando. Ogni tanto guardava il globo di marmo giallo posato su una mensola lì accanto; in quei momenti le sue labbra si muovevano, come per mandare a memoria qualche frase o sequenza di idee.

In fondo allo studio, una pesante porta si aprì lentamente. Una giovane donna dal viso fresco come un fiore sbirciò dentro, l’espressione furbetta, maliziosa. Alla vista dell’uomo nudo si portò le mani alla bocca, smorzando un singulto. L’uomo nudo si girò, ma il pesante portone si era già richiuso.

Per un attimo lui restò fermo, in accigliata riflessione, poi si diresse lentamente alla parete che delineava l’interno della gamba della L. Aprì una sezione della libreria e oltrepassò l’apertura. Dietro di lui, la libreria si richiuse con un tonfo. Discesa una scala a chiocciola, l’uomo sbucò in una camera scavata sommariamente nella viva roccia: il laboratorio privato di Joaz Banbeck. Su un tavolo da lavoro erano sparpagliati arnesi, forme metalliche e frammenti, una serie di cellule elettromotrici e avanzi di circuiti: gli attuali destinatari della curiosità di Joaz Banbeck.

L’uomo nudo diede uno sguardo distratto al tavolo, raccolse uno dei congegni e lo ispezionò con qualcosa di simile al sussiego, anche se il suo sguardo era limpido e meravigliato come quello di un bambino.

Voci ovattate provenienti dallo studio raggiunsero il laboratorio. L’uomo nudo alzò la testa per ascoltare, poi si chinò sotto il tavolo da lavoro. Sollevò un blocco di pietra e scivolò attraverso il varco infilandosi in uno spazio buio e vuoto. Rimessa a posto la pietra, impugnò una bacchetta luminescente e percorse un’angusta galleria in discesa, che poco dopo andò a confluire in una caverna naturale. A intervalli regolari, dei tubi luminosi diffondevano una luce fioca, appena sufficiente a penetrare l’oscurità. L’uomo nudo proseguì a passi veloci, i capelli serici che gli fluttuavano dietro come un’aureola.

Nello studio, l’ancella-menestrello Phade e un anziano siniscalco stavano bisticciando. – Ti dico che l’ho visto! – insisteva Phade. – Proprio con questi due occhi: uno dei sacerdoti, in piedi così e così, come ti ho descritto. – Strattonò con rabbia il gomito del vecchio. – Pensi che abbia perso il senno o sia isterica?

Rife, il siniscalco, alzò le spalle senza sbilanciarsi in un senso o nell’altro. – Adesso non lo vedo. – Risalì la scala, scrutò nel salotto-dormitorio. – Vuoto. Le porte di sopra sono sbarrate. – Quindi rivolse a Phade uno sguardo da gufo. – E io ero seduto nella mia postazione all’ingresso.

– Eri seduto e dormivi. Russavi anche quando sono passata io!

– Ti sbagli; ho solo tossito.

– Con gli occhi chiusi e la testa che pencolava?

Rife scrollò nuovamente le spalle. – Sveglio o dormiente, non cambia nulla. Anche ammettendo che la creatura sia entrata, come ha fatto a uscire? Quando mi hai chiamato dovevo pur essere sveglio, ne converrai.

– Allora resta vigile mentre io cerco Joaz Banbeck. – Phade discese di corsa il passaggio che poco dopo sbucava sulla Passerella dei Pennuti, così chiamata per la serie di splendidi uccellini di lapislazzuli, oro, cinabro, malachite e marcasite incastonati nel marmo. Oltre un arco di colonne spiraliformi di giada verde e grigia, la ragazza imboccò la Via di Kergan, una gola naturale che costituiva l’arteria principale di Borgo Banbeck. Raggiunto il portale, convocò un paio di giovanotti dai campi. – Correte all’incubatore, trovate Joaz Banbeck! Spicciatevi, portatelo qui: devo parlare con lui.

I ragazzi si precipitarono verso un basso cilindro di mattoni neri, un chilometro e mezzo più a nord.

Phade aspettò. L’astro Skene era al mezzodì e l’aria era tiepida; i campi di veccia, bellagarda e sfargano esalavano un gradevole aroma. Phade si accostò a uno steccato e vi si appoggiò. Ora cominciava a dubitare dell’urgenza delle sue notizie, e anche della loro veridicità essenziale. – No! – si disse con ardore. – L’ho visto! L’ho visto!

Su entrambi i lati, alte falesie bianche salivano fino alla Soglia dei Banbeck, oltre la quale svettavano rupi e montagne, e il cielo scuro punteggiato di cirri piumati abbracciava ogni cosa. Skene scintillava abbagliante, una minuscola squama di splendore.

Phade sospirò, ormai mezza convinta del proprio errore. Ancora una volta, con meno energia di prima, si rassicurò. Non aveva mai visto un sacerdote, prima; perché avrebbe dovuto immaginarne uno proprio adesso?

I ragazzi, raggiunto l’incubatore, erano scomparsi tra la polvere dei recinti di esercizio. Le scaglie luccicavano e ammiccavano; stallieri, signori dei draghi e armaioli vestiti di pelle nera erano indaffarati nei loro mestieri.

Dopo un attimo, Joaz Banbeck apparve all’orizzonte. Montò su un alto Ragno dalle zampe affusolate, lo spronò al massimo della sua falcata sobbalzante, i passi rumorosi sul sentiero per Borgo Banbeck.

L’incertezza di Phade aumentò. Forse Joaz si sarebbe irritato, avrebbe liquidato le sue notizie con uno sguardo incredulo? A disagio, lo guardò avvicinarsi. Essendo arrivata a Valle Banbeck solo un mese prima, lei era ancora incerta della sua posizione. I suoi precettori l’avevano addestrata scrupolosamente nella valletta brulla a sud dov’era nata, ma la disparità tra l’insegnamento teorico e la realtà pratica a volte la sconcertava. Aveva imparato che tutti gli uomini aderivano a un ristretto ma identico insieme di comportamenti; Joaz Banbeck, tuttavia, non rispondeva a tali limiti, e Phade lo riteneva del tutto imprevedibile.

Sapeva che era un uomo relativamente giovane, anche se l’aspetto non dava suggerimenti sulla sua età. Aveva un volto pallido e austero nel quale gli occhi grigi luccicavano come cristalli, una bocca lunga e sottile che suggeriva flessibilità, ma la cui piega non si distanziava mai molto da una linea diritta. Le sue movenze erano languide; la sua voce non aveva veemenza; non fingeva perizia nella sciabola o la pistola. Sembrava sfuggire volutamente qualunque gesto che potesse guadagnargli l’ammirazione o l’affetto dei suoi sudditi. Eppure li aveva entrambi.

All’inizio Phade lo aveva considerato freddo, ma dopo un po’ aveva cambiato idea. Joaz era, aveva deciso lei, un uomo solo e annoiato, con un umorismo tranquillo che a volte sembrava piuttosto macabro. Ma la trattava con cortesia e Phade, mettendolo alla prova con tutte le sue cento e una civetterie, non di rado pensava di scorgere una fugace scintilla di risposta.

Joaz Banbeck smontò dal Ragno e gli ordinò di ritornare alla sua stalla. Phade avanzò diffidente, e Joaz le rivolse uno sguardo interrogativo. – Cos’è che richiede una convocazione tanto urgente? Hai ricordato la diciannovesima posizione?

Phade arrossì, confusa. Lei gli aveva descritto in parole povere i rigori scrupolosi del suo addestramento; ora Joaz si riferiva alla voce di una delle classificazioni che lei aveva scordato.

Phade parlò in fretta, di nuovo emozionata: – Ho aperto la porta del tuo studio, lentamente, in silenzio. E che cosa ho visto? Un sacerdote, nudo tranne i capelli! Lui non mi ha sentita. Ho chiuso la porta, sono corsa a chiamare Rife. Ma quando siamo tornati… la camera era vuota!

Le sopracciglia di Joaz si contrassero appena; diresse uno sguardo verso la parte alta della valle. – Strano. – Dopo un momento, chiese: – Sei sicura che non ti abbia vista?

– No. Credo di no. Eppure, quando sono tornata con quel vecchio scemo di Rife, lui era scomparso! È vero che conoscono la magia?

– Riguardo a questo, non saprei – rispose Joaz.