La distopia è un sottogenere della fantascienza particolarmente vitale in questi anni, al punto da essere spesso usato come sinonimo nobile” di science fiction. Diffusasi nell'epoca dei totalitarismi come specchio deformante delle utopie reali”, oggi si trova a interpretare il lato distorto del mondo “libero” che è l'unico rimasto (qualcuno crede l'unico possibile) dopo la caduta dei regimi comunisti.

Sembrerebbe quasi che in nessun tempo” sia possibile l'utopia (non a caso alcune utopie sono anche ucronie, ambientate in linee storiche alternative, come Non lasciarmi di Ishiguro che abbiamo incontrato in questa rubrica). L'utopia, del resto, nasce come genere della filosofia, apparentemente poco adatta alla riflessione romanzesca – per sua natura sfuggente, problematica, critica verso lo status quo. L'utopia afferma che un mondo migliore è possibile (grazie ai progressi della filosofia, della scienza, della politica); il romanzo per sua natura non afferma, fa domande a cui non dà risposte.

Ma è davvero impossibile un romanzo che racconti l'utopia?

Nulla è impossibile per lo scrittore di fantascienza (persino per quello inconsapevole di esserlo); anche se in numero molto inferiore, in confronto alla produzione distopica, alcuni autori hanno cercato di portare l'utopia nel romanzo, con risultati radicalmente differenti dai filosofi.

I romanzi ambientati in mondi utopici sono tutt'altro che pamphlet propagandistici, non vogliono venderci un sogno, ma provare a immaginare come funzionerebbe una società fondata su principi più equi, senza sottrarsi all'osservazione degli inevitabili difetti e contraddizioni che sono connaturati in ogni società umana.

L'utopia filosofica si basa su un paradosso: dato il migliore dei mondi possibili, e impossibile che un individuo non desideri farne parte; ma se l'individuo vuole affermare il suo pensiero in contrasto con l'utopia diventa un sovversivo che va epurato, ed ecco la radice della distopia: il mondo perfetto funziona quando ha eliminato ogni imperfezione, è cioè un mondo totalitario.

Naturalmente non deve per forza finire così, ma non è casuale se tre grandi costruzioni utopiche della fantascienza contemporanea sono al tempo stesso una riflessione sui limiti dell'utopia stessa; due di queste esulano dalle premesse di questa rubrica, essendo scritte da autori di genere e ben note agli appassionati: mi riferisco a I Reietti dell'altro pianeta di Ursula K. Le Guin (il cui sottotitolo è programmatico: Un'ambigua utopia) e al ciclo della Cultura di Iain M. Banks. In entrambi i casi il punto di vista adottato è quello di individui esterni o in bilico tra la cultura utopica da cui provengono e altre forme di governo.

Il terzo caso è meno noto agli appassionati di fantascienza, pur essendo uno dei romanzi più famosi del premio Nobel Hermann Hesse. Il giuoco delle perle di vetro è anche l'utopia fantascientifica più datata, fra le tre, ma forse non percepita come tale per via dell'autore e per la sostanziale assenza di aspetti futuristici e tecnologici (ma su questo aspetto torneremo più avanti).

La gestazione di questo capolavoro ha impegnato l'autore per oltre un decennio, convogliando al suo interno tutte le tematiche a lui care (è, tra le altre cose, una summa della sua opera) in uno scenario ideale collocato in un lontano futuro post-bellico (è per questo anche una fuga dal tempo in cui Hesse scrive) in cui la grande cultura e tradizione europea e orientale è conservata e praticata nella provincia di Castalia da una sorta di ordine monastico-laico sotto forma del Giuoco del titolo.

Poche parole sulla complessa struttura tripartita del romanzo, che mescola la forma del saggio, della biografia e della poesia; la prima parte è un “Saggio alla portata di tutti” sulla storia del Giuoco dalle sue origini nell'“era della terza pagina” (cioè il tempo di Hesse, in cui il nozionismo e lo sfoggio di cultura “enigmistica hanno soppiantato la creazione artistica) attraverso la decadenza della cultura occidentale e la ricostruzione nella società castalia; la seconda parte, più propriamente romanzesca, è occupata dal lungo “Saggio biografico sul Magister Ludi Josef Knecht”; infine la terza parte contiene Gli scritti postumi di Josef Knecht” a loro volta consistenti in tredici poesie giovanili e Tre vite” alternative del Magister Ludi, collocate nella preistoria, nell'antichità e nell'oriente di Siddharta.

Nelle prime pagine l'anonima voce narrante ci avverte dell'eccezionalità di una narrazione biografica nell'epoca della Castalia, che ha rigettato ogni forma di individualismo e di creatività, nei quali rintraccia i germi della decadenza del passato.

Si affaccia qui il primo conflitto tra opposte tendenze, centrale nel romanzo e nella stessa poetica di Hesse: il conflitto tra erudizione e creatività, tra vita contemplativa e vita attiva, tra utopia e politica. Il Magister Knecht incarna questo conflitto, con la sua tensione verso un'arte creativa e non solo riepilogativa, mentre a livello macrostorico lo ritroviamo nell'opposizione tra Castalia e mondo esterno, emblematicamente riassunto nei lunghi dialoghi con l'amico/rivale Plinio Designori – portavoce della vita politica e sensuale (è l'unico peronaggio ad avere una moglie e un figlio in un romanzo in cui l'universo femminile è per il resto assente).

Infine il conflitto interiore esploderà nell'aperta contraddizione del Magister con l'Autorità Pedagogica di Castalia, culminante nel lungo Memoriale di Knecht che costituisce l'altro grande inserto saggistico del libro.

Il romanzo, come si è detto, rientra a pieno titolo nel canone della fantascienza sociologica, benché sia stato osservato che il futuro immaginato da Hesse manchi singolarmente di qualsiasi riferimento alla tecnologia, anzi si direbbe addirittura arretrata rispetto agli anni '40 in cui il libro fu pubblicato. Tuttavia anche questo è un aspetto comune ai romanzi post-bellici (penso a Un cantico per Lebowiz di Miller Jr.). L'ambientazione di riferimento di questo immaginario è da cercarsi nel medioevo che segue alla caduta della civiltà.

Ma a prescindere da questi aspetti quasi di contorno, il cuore fantascientifico del romanzo è contenuto nel titolo stesso – di cui come vedremo è una perfetta realizzazione.

Il giuoco delle perle di vetro è evocato senza mai essere descritto esplicitamente, coerentemente con la scelta di un narratore interno alla Castalia; Hesse lascia al lettore il compito di immaginarselo dagli indizi sparsi nelle varie parti del libro. Originariamente un vero e proprio gioco di perle da infilare, in cui ad ogni perla corrispondeva un concetto, si è evoluto come gioco combinatorio tra tutti gli elementi delle arti, scienze, filosofie, scomposti a formare un immenso alfabeto con cui rielaborare forme culturali del passato in disposizioni sempre nuove.

A seconda dei periodi è un'arte o una scienza a dominare il Giuoco; al tempo del Magister Ludi Josef Knecht è la musica a occupare il posto centrale, proprio per questo viene scelto Knecht, un musicista, a guidare il Giuoco, che si rappresenta una volta l'anno in Castalia.

Si è osservato che il romanzo stesso oscilla tra il rischio di diventare uno sterile esercizio di riepilogo (non dissimile dai giochi enigmistici dell'«era della terza pagina ») e proporsi esso stesso come vero e proprio Giuoco delle perle di vetro1.

Sotto questo aspetto, il romanzo è un luminoso esempio di forma che corrisponde al contenuto.

Cosa permette a un romanzo tanto vasto e complesso, imperniato sula contraddizione, di non risolversi in n mero esercizio di erudizione e proporsi come vera utopia romanzesca?

Il segreto va cercato nell'abilità di Hesse di non affermare un'ideologia alternativa a quella bestiale che combatte nella vita e nel romanzo; al nazismo, mai nominato, sotto cui vede necessariamente soccombere l'intera tradizione umanistica europea – e tedesca in particolare – Hesse non oppone un'altra ideologia totalitaria come nelle utopie filosofiche, ma ci presenta un sogno umanistico di cui – con gli strumenti peculiari del romanzo – saggia contemporaneamente i limiti; è in particolare l'ironia che permette all'autore di relativizzare ogni affermazione, rendere problematico ciò che per il filosofo è univoco.

Apparentemente nei dubbi di Knecht si intravede la morte per sterilità di Castalia, ma il solo fatto che il narratore sia un anonimo cronista che scrive anni dopo la fine di Knecht è un indizio che la Provincia Pedagogica ha saputo rinnovarsi, che l'utopia è viva e proprio il Magister Ludi Josef Knecht ne è stato un innovatore.

Il messaggio di speranza con cui ci lascia questo grande premio Nobel, nel momento più buio del secolo passato, è che la cultura europea può sopravvivere nelle sue più alte espressioni, a patto di saper rinnovare quel lascito grazie a spiriti nuovi e creativi, in grado di intravedere legami e ibridarsi, abbastanza coraggiosi da tradire i maestri del passato mentre li celebrano.

Il segreto è dunque in un delicato gioco d'equilibrio tra il culto del passato celebrato dalle destre del Novecento e la creatività distruttrice dell'artista geniale (raccontata dall'amico Mann nel romanzo gemello di questo, Doctor Faustus): se riusciremo a collocarci esattamente in quel centro tra i due estremi potremo – se non realizzare – scorgere l'autentica utopia romanzesca.

1Indubbiamente il libro stesso è in grandissima misura una partita del giuoco delle perle di vetro, e una partita assai gloriosa con tutti i contenuti e i valori della nostra cultura”. Così Thomas Mann in una lettera a Hermann Hesse datata 8 aprile 1945.