Chi sono i fenomeni del nostro tempo? Coloro che riescono a rompere le barriere che li circondano e affrontano e vincono le difficoltà lasciando sul terreno, morti o feriti, pregiudizi e luoghi comuni su cosa può e non può fare l’essere umano. Ma a volte il modo in cui si affronta la battaglia è in grado di rivelare parecchio sulla nostra capacità di “vedere” oltre i nostri limiti. È il caso dei due straordinari, seppur diversissimi, personaggi che stanno viaggiando nelle cronache degli ultimi anni.

Oscar Pistorius ha ventidue anni. È sudafricano, biondo, atletico, fotogenico, sguardo bionico e battuta limpida. Nato privo di peroni, subì l’amputazione di entrambe le gambe all’età di soli undici mesi. Questo non gli ha mai impedito di praticare sport e di lasciar correre la fantasia su cosa poteva significare essere normali. E così facendo si è ritrovato a correre sul serio; dapprima sulle strade polverose della sua Pretoria, e poi sulle piste rosse degli stadi di atletica del mondo intero. La sua volontà in fibra di carbonio gli ha intriso l’intero organismo, dal cervello fino alle ginocchia, per fuoriuscirne sotto forma di due mezzelune aliene sinuose e potenti che ora sono i suoi polpacci e i suoi piedi. Con queste protesi Oscar ha provato a sfrecciare verso le Olimpiadi di Pechino, sogno ormai irrealizzabile, raccogliendo le luci delle telecamere e degli sponsor, spargendo brandelli di sé attraverso interviste, libri, persino videoclip. Il tutto per dimostrare al mondo che il corpo non è un limite, ma un strumento da plasmare e completare per raggiungere gli obiettivi prefissati.

Simona Atzori ha trentaquattro anni. È milanese, mora, sottile, dolcissima, un sorriso che riempie l’aria con passo lieve e delicato. Il destino con lei è stato ancora più crudele, privandola dalla nascita di entrambe le braccia. La sua volontà di raggiungere una vita piena e ricca è invece rimasta dentro il suo corpo, rifiutando protesi ed estensioni come un presagio di disumanizzazione prossima ventura. E allora i piedi di Simona sono diventati le sue mani; con questi piedi Simona dipinge, danza, studia, guida la macchina, prende il caffè, coccola il fidanzato. È partita da Milano per andare a laurearsi in Canada, e strada facendo ha raccolto fama e ammirazione in giro per il mondo, ricevendo e consegnando premi (ce ne è uno che porta il suo nome). Il suo corpo incompleto è diventato l’emblema dell’espressività senza confini; l’estensione emotiva e l’empatia comunicativa di Simona colmano le distanze per arrivare là dove con gli arti forse non sarebbe mai arrivata.

Simona Atzori
Simona Atzori
È fin troppo facile trovare reminiscenze fantascientifiche nelle due storie. L’integrazione carne-metallo di Pistorius è stata postulata più volte dalle sperimentazioni letterarie di James G. Ballard, e ha trovato nel cyberpunk la propria applicazione pratica, in tutti i numerosi personaggi pieni zeppi di protesi in grado di estenderne il controllo sulla realtà. Simona Atzori invece sembra una creatura aliena uscita da uno dei tanti romanzi di Ursula K. Le Guin, un essere a metà tra fiaba e xenobiologia, un incanto biologico in grado di compiere miracoli. Ma pur nella analoga fantasticità di questi due personaggi, le loro vicende rivelano in realtà una profonda differenza nell’approccio della propria diversità, e di come hanno scelto di rapportarsi con il resto del mondo.

Il vero sogno di Pistorius è di gareggiare con gli atleti normodotati. In altre parole, trovare il modo di inserire la propria diversità in un contesto di normalità sociale prima che sportiva; l’accettazione da parte degli altri di un velocista con protesi in fibra di carbonio equivale a ricondurre la differenziazione in un quadro di categorie mentali condivise, nel quale tale differenziazione viene di fatto assorbita. Invece Simona Atzori compie il percorso esattamente contrario: la pulita esibizione della sua diversità, senza alcun filtro tecnologico, ha come obiettivo quello di scardinare l’ordine prestabilito di ciò che si può e non si può fare, e di rendere normale ciò che “normale” non è. Davanti a questa ragazza il concetto di normalità è costretto ad adattarsi, a trovare nuovi spazi e nuove definizioni, contorcendosi e dibattendosi in un’operazione che, alla fine, è di ampliamento delle categorie mentali già citate. Oscar dice: “Io sono diverso, ma posso fare quello che fanno tutti”. Simona dice: “Io sono diversa, e posso fare cose che tutti gli altri non fanno”.