Era molto tempo che promettevamo (minacciavamo?). E' finalmente arrivato il momento. Presa la decisione di tornare in Italia, imitare Franco Forte era una sfida a cui non potevamo sottrarci. Perché Franco (oltre a essere un collega e un amico) è anche uno scrittore personalissimo, unico e singolare, ma allo stesso tempo è uno straordinario archetipo del modo di fare SF nel nostro bistrattato Paese.

"Fare SF", appunto, attività che in Italia tradizionalmente significa molto più che scrivere. Che significa promuovere e promuoversi, criticare quando serve e incoraggiare quando si può, creare occasioni, scuotere situazioni inerti, forzare chiavistelli e aprire porte dove altri vedono solo muri, accomunare voci abituare a gridare l'una contro l'altra a formare un unico coro.

In questo Franco è stato ed è un gigante. Il nostro vasetto "sotto spirito" è decisamente troppo piccolo per contenerne l'immensa frenesia, l'entusiasmo creativo, l'incontenibile voglia di muoversi e l'instancabile spirito di iniziativa.

Non tenteremo neppure di elencare l'incredibile mole di lavoro che il Forte nazionale ha svolto e sta svolgendo, in campo SF e della narrativa in generale. Sottolineiamo soltanto un singolare parallelo tra il suo cammino professionale (perché Franco è tante cose, ma soprattutto un rigoroso professionista, forse l'autore SF italiano che mette più professionismo in questa attività) e la storia del personaggio storico cui Franco ha dedicato i suoi più noti romanzi.

Come Gengis/Temugin riunì i litigiosi mongoli per poi guidarli alla conquista del mondo, così il prode Franco ha sempre combattuto (curando antologie, creando fanzine e riviste, bandendo concorsi letterari, promuovendo incontri e discussioni) e combatte ancora per riunire i litigiosissimi autori italiani di SF sotto un'unica bandiera e insieme a loro lanciarsi a testa alta nelle perigliose steppe editoriali italiane.

Riuscirà nell'impresa? Noi glielo auguriamo. E nel frattempo azzardiamo un'ironica rivisitazione del "fortiano" Gengis Khan, un falso d'autore ove ogni riferimento a fatti e persone dei nostri giorni è puramente casuale, e senza altro obiettivo che quello di far sorridere (anche se un po' sul provocatorio).

Grazie ancora, Fra'. E perdonaci.

Berlus Khan

di Franco Forte?

Come vi è un unico sole nel firmamento, e un'unica potenza nel cielo,

così io solo, mi consenta, devo regnare su tutta la terra.

(da una lettera ritrovata tra i resti del palazzo imperiale di Arcoracorum)

Fin Khan si fermò con i suoi uomini appena fuori dal cerchio delle tende. Poi discese da cavallo e entrò con decisione nella yurta del suo alleato. - Ti saluto, potente Piersilviogìn. - esordì, togliendosi il copricapo in pelle di immigrato marocchino.

Aveva detto così perché era lieto di rivedere l'alleato, dato che lo scontro decisivo con l'esercito del comune nemico Rutell Khan si avvicinava giorno dopo giorno.

- Ti saluto anch'io. - ricambiò il sovrano.

Aveva detto così perché Fin Khan gli era simpatico. E poi perché in fondo era un uomo educato.

- La tua "Yurta delle Libertà" mi sembra ogni giorno più grande. E più bella. - elogiò il nuovo arrivato.

Il sovrano sorrise. - Presto lo sarà ancora di più. Domani arriveranno i bahadur di Casin Khan e i celhodur di Boss Khan.

- Boss Khan? - ripeté l'altro, perplesso - Pensavo che ti avesse tradito e pugnalato alle spalle!

- Mi ha tradito nel capitolo uno. - chiarì Piersilviogìn - E mi ha pugnalato nel capitolo due. Nel tre invece si è alleato con i miei nemici, mentre nel quattro ha combattuto da solo. Ma adesso siamo nel quinto capitolo e Boss Khan è di nuovo mio andah, cioè fratello di sangue.

Fin Khan si mostrò rassicurato. - In questo caso, il nostro esercito è il più numeroso della steppa. I nemici non hanno scampo.

Piersilviogìn annuì gravemente. - Il vile avversario rifiuta le battaglie anticipate, ma il giorno dello scontro finale non può tardare ancora... E quel giorno regolerò tutti i conti: con i giudiciat di Dipietrhutai, che mi hanno fatto provare l'umiliazione del kanga di garanzia, con i demonaimani di Prodhjl e con i pidiessahiti di Dalhem.

Fin Khan sedette a gambe incrociate sul tappeto in pelo di yak e si attaccò al boccale di kumyss.

- Hai già studiato il piano di battaglia, potente Piersilviogìn?

Aveva detto così perché in passato, seguendo gli ordini non propriamente perfetti del suo Khan, le aveva buscate di santa ragione.

- Ho deciso di rivoluzionare l'assetto delle nostre unità di combattimento. - spiegò compiaciuto Piersilviogìn. Non aggiunse che lo faceva sedici volte al giorno, ma lo dico io per evitare che al lettore sfugga qualcosa.

- Davvero? - esclamò Fin Khan, allarmato.

Il sovrano prese una busta piena di carrarmatini del risiko e cominciò a disporli ordinatamente in fila sul tappeto in pelo di yak.

- Guarda, Fin... queste sono le "guran", le nostre unità di combattimento. Se ne uniamo cinque, otteniamo un "tuman", una formazione più potente e flessibile. Se poi uniamo cinque tuman otteniamo un "biscion", raggruppamento con forza d'urto assolutamente inarrestabile.

- Uhm... - Fin Khan era perplesso - Ma in questo modo i nostri uomini non riuscirebbero a manovrare. Se combattiamo in montagna o nelle paludi...

Piersilviogìn scosse la testa. - Consentimi, ho studiato tutto. Muoveremo l'esercito lungo la Gola del Presidenzialismo, attraverseremo la Valle del Buon Governo e poi ci disporremo in battaglia nella Pianura dei Settemila Nuovi Posti di Lavoro. Rutell Khan non avrà scampo.

Fin Khan tacque, impressionato. Come sempre, Piersilviogìn aveva ragione. Non per nulla era stato insignito del titolo di Berlus Khan. Che poi, in lingua arcor-mongolica, significa "imperatore con tre televisioni e uno sbrego di giornalisti leccaculo a disposizione". Lo dico per evitare che ai lettori sfugga qualcosa.

Inchinandosi di nuovo, Fin Khan lasciò la yurta del sovrano. Piersilviogìn ripose i suoi carrarmatini e ordinò a un servo di condurre alla sua presenza la sposa reale. L'uomo eseguì all'istante. Ma quando il lembo della tenda si sollevò di nuovo, il sovrano digrignò i denti.

- Non mia moglie numero diciassette, imbecille! - ululò - Mia moglie numero diciotto!

Il servo impallidì e fece per scusarsi, ma Piersilviogìn non gliene lasciò il tempo. Con un solo colpo di scimitarra, la testa del servo finì nell'orcio del kumyss.

- Ehm... micione. - azzardò la donna - Guarda che ti sbagli. Io sono effettivamente la tua diciottesima sposa.