Film e serie tv ambientate negli Stati Uniti contemporanei e che abbiano a che fare con agenzie governative, come FBI o militari, o ancora di più col governo stesso, hanno un enorme problema, un problema arancione. Se vogliono essere calate davvero nel presente dovrebbero raccontare il presidente Trump, l’FBI epurata e asservita di Patel, il dipartimento della difesa – pardon, della “Guerra” – del ministro ex (?) alcolista Hegseth. Ma è evidente che se dovessero fare questa scelta il tema del film o la serie diventerebbe inevitabilmente quello. L’alternativa è ambientare le storie in una versione alternativa degli Stati Uniti, un universo-specchio dove Trump non esiste, il presidente, magari donna, magari nero, è una persona quantomeno ragionevole e dotata di un certo grado (anche non necessariamente alto, ma presente) di empatia umana. Dove le agenzie governative si occupano di terroristi e minacce serie, non di poveracci con la pelle appena più scura di quella standard irlandese, e dove i militari affrontano i problemi con efficienza e senza doversi preoccupare delle follie di un ministro fuori controllo. Un’America “regno delle fiabe”, che non esiste più ma che torna utile per raccontare cose diverse dall’elefante nella stanza.

Così accade anche in A House of Dynamite, il nuovo film di Kathryn Bigelow (a noi nota soprattutto per Strange Days) uscito da qualche giorno direttamente su Netflix, che affronta un tema che fino a qualche anno fa ci eravamo illusi di poter relegare nel passato e che ora torna dannatamente di moda, quello della proliferazione delle armi nucleari. Abbiamo vissuto decenni di guerra fredda sapendo che se un paese avesse lanciato un attacco nucleare avrebbe subito l’immediata ritorsione. Questa situazione, per quanto allucinante, ha permesso al mondo di vivere in relativa pace per più di mezzo secolo. 

Ma che succede se, con le moderne tecnologie che possono mettere in crisi i sistemi informativi, ci fosse un attacco nucleare di cui è impossibile stabilire l’origine? Sugli schermi appare un ICBM, ovvero un missile balistico intercontinentale. Non si sa da dove sia partito: quello che si sa, dopo qualche minuto, è che ha una rotta suborbitale ed è diretto su Chicago.

La domanda alla quale devono rispondere militari, consulenti, analisti e in ultima analisi il Presidente è terribile: devo scatenare una ritorsione? E contro chi? Basata su cosa? O devo aspettare di vedere la città distrutta senza far nulla, dando quindi l’impressione al nemico di non essere in grado di rispondere e quindi favorire un attacco più esteso?

Bigelow, che non mai espresso idee politiche molto precise se non a favore del pacifismo e contro le armi nucleari, non dà una risposta. Anzi, l’aspetto più conturbante del film, più disturbante e forse anche irritante, è che non dà una risposta.

Il film è organizzato in tre parti, che raccontano la stessa crisi da tre punti di vista, quello della sala di emergenza della Casa bianca, con Rebecca Ferguson, quella del segretario della difesa, con Jared Harris, e quella del presidente, con Idris Elba. A ogni parte si ritorna all’inizio della crisi per arrivare fino al secondo prima del suo esito finale. Molti, abbiamo visto, hanno riavvolto i titoli di coda sperando ci fosse qualcosa dopo, ma no: l’idea è proprio quella, in fin dei conti. 

L’idea è che viviamo giorno dopo giorno le nostre vite, coi nostri problemi quotidiani, senza renderci conto che siamo a circa diciannove minuti dall’apocalisse, il tempo che impiega un missile balistico a sorvolare l’Artico e a cadere da qualche parte in territorio americano. E quando questo dovesse accadere, senza nemmeno capire chi è stato o perché, l’esito sarebbe quasi inevitabilmente la catastrofe finale.

Nel mondo del 2025 abbiamo tante cose di cui preoccuparci. Questa è, senza dubbio, quella che potrebbe liberarci da tutte le altre in modo più rapido.