19 novembre 2006, Ramadi, Iraq.
Un gruppo di Navy SEAL, unità speciale della Fanteria di Marina degli Stati Uniti (aka Marines), di stanza in Iraq, viene inviato in piena città per stabilire un punto di osservazione e di controllo del territorio, con cecchini.
Entrati nottetempo in una casa, avendola in pratica sequestrata, non sono riusciti a passare inosservati, e vengono presto presi d'assedio dagli iracheni.
Le ore successive saranno per il gruppo una corsa contro il tempo, cercando di sopravvivere all'assedio, nell'attesa di rinforzi che li possano estrarre dalla disperata situazione nella quale è stato ordinato loro di cacciarsi.
Warfare – Tempo di guerra, si propone come un film di guerra documentato e realistico, lontano tematicamente dai temi fantascientifici di Ex Machina e Annientamento, o distopici di Civil War, opere precedenti di Alex Garland.
La continuazione ideale di Civil War è più che altro stilistica, nel freddo distacco che per la maggior parte dei 94 minuti del film si ha nella rappresentazione della guerra. L'apporto del co-regista Ray Mendoza apporta la precisione e la meticolosità nel mostrare i movimenti degli uomini sul campo, mai improvvisati, ma aderenti se non alla realtà a una sua verosimile rappresentazione.
Una cura che a volte fa quasi pensare a un documentario ripreso in soggettiva dalle telecamere dei soldati.
Non si tratta di un racconto inedito della guerra, Garland e Mendoza si inseriscono nel solco tracciato da Salvate il soldato Ryan ed epigoni, non risparmiando sangue, senso di spaesamento e di accerchiamento, nonché di mostrare le conseguenze sui corpi umani dei colpi subiti.
Tanta crudezza si accompagna a un distacco dei perché di fondo. I ragazzi non si chiedono se la loro guerra sia giusta o sbagliata. Il film apre una cornice narrativa nella quale non sappiamo da dove provengano i soldati, che cosa sia nei loro pensieri, e nei dialoghi non c'è altro che la concentrazione sul momento presente, sulla pressante esigenza di restare vivi.
Se quindi per la maggior parte del tempo il film resta fuori di retorica, è il finale che spiazza, perché nel ringraziare l'apporto di consulenza dei Navy SEAL, dei quali Mendoza ha fatto parte, sembra quasi lanciare una provocazione propagandistica che sembra scivolare in retorica.
Per quanto riguarda la messa in scena, in Warfare è difficile stabilire il confine tra cura dei dettagli e l'auto compiacimento e manierismo.
Il film non omette dettagli importanti, come la noncuranza nel sequestro della casa, o l'uso degli iracheni di supporto come esca. La paura della morte è per tutto il film una componente asfissiante.
A contribuire all'immersività ci sono una fotografia sgranata e polverosa, ambienti curati nei dettagli, soggettive, primi e primissimi piani, unite a un sonoro che devasta. Momenti sonori che rendono sia il senso dell'accerchiamento che dell'inutile sfoggio di una "potenza impotente", mi si conceda l'ossimoro, quando mostra la manovre che gli aerei effettuano a volo radente al solo scopo di distrarre l'avversario.
Tutto questo si alterna a quei momenti asettici che sembrano ridurre la guerra a un videogioco visto da lontano, ma che diventano agghiaccianti se un momento prima si è vista la cruda situazione che si cela dietro un'immagine che riduce a pixel quelli che sappiamo sono esseri umani.
E in questo sono molto bravi quasi tutti i componenti del cast. Un gruppo di giovani attori per alcuni dei quali è abbastanza facile scommettere su una brillante carriera futura, come Joseph Quinn (Stranger Things, I Fantastici 4 – Gli inizi) e Will Poulter (The Revenant, Midsommar) tra gli altri.
A differenza di film che hanno parlato di "sporche guerre", come Platoon o Full Metal Jacket, che di certo non erano meno coinvolgenti, perché comunque se non inseguivano l'estremo realismo, la pregnanza con la quale affrontavano il tema li rendeva verosimili, Warfare non giudica, non analizza. Si sottrae da una presa di posizione che in simili casi sarebbe necessaria, in un senso o in un altro, senza restare in una linea grigia che, lascia alla responsabilità dello spettatore valutare secondo la propria sensibilità o convinzione.














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