Nella mia mente un legame connette 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick a Interstellar di Christopher Nolan ed è con questo spirito che li ho rivisti entrambi (non che ci sia bisogno di pretesti per rivederli). 

Quello che accomuna istintivamente le due pellicole è l’immagine di un astronauta in tuta sullo sfondo delle stelle accompagnato da una musica ipnotica, e il senso che quanto che viene mostrato sia realmente possibile. In entrambi i film c’è, poi, un deus ex machina che interviene ad aiutare la razza umana: il monolito nel film di Kubrick, che compare nell’epoca preistorica, poi sulla Luna e infine nella stanza da letto di Bowman morente e, in Interstellar, Gargantua, la singolarità gravitazionale che compare improvvisamente 48 anni prima dello svolgimento della storia offrendo all’umanità un portale verso un’altra galassia, ma in nessuno dei due film conosciamo chiaramente l’identità di chi si cela dietro questi interventi che possiamo anche definire metafisici.

Il ritratto della società umana futuristica dei due film è, però, molto diverso.

Kubrick, ispirandosi al racconto di Arthur C. Clarke (che ha più volte ribadito come il racconto stesse al film “come una ghianda ad una quercia”), trasporta la corsa allo spazio che si stava svolgendo negli anni in cui dirige la pellicola (1968) in un futuro pervaso dallo spirito di sospettosa collaborazione da “guerra fredda” mostrando la perplessa reazione delle grandi potenze terrestri in merito al ritrovamento del Monolito sulla Luna. La tecnologia spaziale viene mostrata come il naturale passo successivo all’evoluzione dell’umanità sul pianeta e ci lascia intuire come le conquiste in questo campo siano state motore per lo sviluppo dell’intera umanità.

Nolan, con il suo film prodotto nel 2014, mostra invece un pianeta morente abitato da esseri umani spaventati a tal punto che, come dice il protagonista Cooper interpretato da Mattew McConaughy : “Un tempo per la meraviglia alzavamo al cielo lo sguardo sentendoci parte del firmamento, ora invece lo abbassiamo preoccupati di far parte del mare di fango.” Tutta la prima parte della storia, pur se girata nella zona rurale degli Stati Uniti, quella contraddistinta da vaste praterie coltivate a cereali, invece di trasmettere il respiro degli ampi spazi, comunica oppressione e claustrofobia quando all’orizzonte compaiono le nubi della “piaga” l’infezione da peronospora che sta uccidendo l’alimento base per l’umanità, suscitando tempeste di polvere che costringono tutti a tapparsi in casa e uscire all’aperto con quelle che solo sei anni dopo avremmo tristemente imparato a conoscere: le mascherine FFP2. Nemmeno in questo futuro l’umanità si presenta unita ma la divisione che ci viene mostrata non riguarda i blocchi politici o continentali. Infatti da un lato troviamo chi vuole sfruttare la singolarità e le possibilità di esplorazione e colonizzazione spaziale e dall’altro chi vuole usare i fondi solo per sopravvivere e forse solo prolungare l’agonia della razza umana. La scienza, e in particolar modo l’astrofisica e l’esplorazione spaziale, sono considerate inutili a tal punto da riscrivere i libri di storia in una visione “woke” che non solo rilegge la corsa alla Luna come un espediente propagandistico che ha permesso agli USA di far rovinare economicamente la Russia ma, addirittura, afferma che l’uomo sulla Luna non c’è mai stato.

Kubrick presenta una umanità che sta per sbocciare, Nolan invece ce la fa vedere raggomitolata e sgomenta difronte ad una minaccia globale.

Il film di Nolan non si basa su un opera letteraria come quello di Kubrick ma sul testo di divulgazione scientifica del fisico Kip Thorne (che ha poi ricevuto il Nobel nel 2017): Black Holes and Time Warps: Einstein's Outrageous Legacy del 1994 e si presenta come una storia di stampo più classico che segue il protagonista Cooper, ex astronauta ed ingegnere ed ora costretto a fare l’agricoltore per motivi di sopravvivenza, che si unisce a quello che resta della NASA, ridotta ad un manipolo di scienziati / carbonari che inseguono il sogno dell’esplorazione spaziale, nel tentativo di trovare una nuova casa all’umanità. Kubrick, invece, offre uno sguardo allo stesso tempo oggettivo ed empatico sull’intera storia dell’umanità, partendo da Moonwatcher, la scimmia capo che impara ad usare l’osso come arma per guadagnare a se e ai suoi il predominio sulle sorgenti di acqua da bere. Nel famoso stacco dove l’osso che vola nel cielo diventa un mezzo spaziale è compreso l’intera storia dell’Uomo fatta di ossa/armi sempre più sofisticati per conquistare spazio vitale per la propria gente. Fino a scontrarsi con il Monolito che aspetta sulla Luna pronto ad inviare un segnale verso Giove che l’umanità insegue con l’astronave Discovery dove umano e cibernetico danno luogo ad un nuovo scontro fino alla enigmatica trasformazione del vecchissimo astronauta Bowman nel Children of the Stars. Kubrick, dal canto suo, ha sempre affermato che non esiste una sola e vera spiegazione del proprio film, ma di aver cercato di parlare all’inconscio dello spettatore e, probabilmente, quello che rende questo film un classico è legato alle sue ninfinite possibilità di lettura. L’impressione che io ho sempre avuto da 2001 e dal suo finale è quella di uno sguardo benigno verso l’evoluzione dell’umanità in esseri superiori, transumani, capaci di comprendere nuovi concetti e nuovi mondi attraverso nuovi canali di elaborazione e nuovi impulsi per ora incomprensibili.

Interstellar, a sua volta, mette in gioco la “teoria dell’amore”, che il personaggio di Anne Hathaway (Amelia Brand) espone così: “L'amore è l'unica cosa che riusciamo a percepire che trascenda dalle dimensioni di tempo e spazio. Forse di questo dovremmo fidarci, anche se non riusciamo a capirlo ancora.” E l’amore che lega le persone, in particolar modo Cooper a sua figlia Murph, viene adoperato da “quelli che hanno fatto apparire il buco nero Gargantua” (forze la razza umana del futuro?) per usare lo stesso Cooper permettendogli di entrare in un tesseratto dove attraverso la gravità, e divenendo il “fantasma” che scompiglia la libreria della camera di sua figlia, diventerà messaggero per la soluzione dell’equazione che permetterà all’umanità di costruire astronavi coloniali per mettersi in salvo su un  nuovo pianeta. Non ci è dato sapere, però, se l’umanità accolta in queste astronavi abbia in qualche modo imparato la lezione, iniziato a collaborare davvero per il bene comune, o forse abbia solo firmato un armistizio prima di ricominciare daccapo tutto su un nuovo pianeta, errori compresi.

La chiusura di Nolan riguarda Cooper che dopo aver salutato la sua anzianissima figlia, capisce di essere “fuori tempo” e decide di tornare da Amelia Brand, che forse ha scoperto di amare.

In conclusione, ciò che decisamente accomuna i due lavori è la scelta del genere fantascientifico, ovvero del solo genere che offre la possibilità di narrare storie capaci di aprire immaginifici portali sul futuro tali da farci riflettere su cosa siamo, cosa stiamo combinando a questo nostro pianeta, come immaginiamo il futuro delle prossime generazioni. Questo è il genere che ci ha sempre affascinato, altrimenti non saremmo qui a parlarne, ed è quello che ci spinge ancora a dibatterne quando troviamo storie che, affrancandosi dalle sole esigenze di mercato, hanno il coraggio di essere originali e offrire visioni che stimolano la nostra mente senza per forza annebbiarla solo di effetti speciali e trame viste e riviste. Storie che vorremmo vedere più spesso.