Con dita tremanti Katia appoggiò la sua creazione sul davanzale. Era uno schiaffo al grigio circostante: i colori sfacciati della glassa, gli zuccherini, le gocce di miele, che non avrebbero dovuto esserci, ma davano quel tocco di proibito che non guastava. Un cupcake perfetto, da primo premio. Rimase lì a osservarlo, tra le briciole e la polvere e pensò che era proprio brava. Nessuno li sapeva fare come lei, da quel poco che aveva potuto osservare.

Sapeva che non poteva restare lì in contemplazione, ma non aveva molto di meglio da fare. Nel caldo del mattino la solita cappa di nuvole gravava sulla città, ma non impediva il brulicare della vita minuscola che ormai dominava incontrastata. La prima mosca arrivò dall’erba alta, andando proprio a posarsi sul miele messo lì per intrappolarla. Il brontolio allo stomaco della ragazza fece da eco al ronzio delle povere ali impiastricciate: la golosità, come al solito, era un decreto di condanna. Nel giro di un paio d’ore il pasticcino era punteggiato di insetti, mosche e moscerini: ancora vivi agonizzavano sulla glassa o soffocavano nel miele, vite spente dallo zucchero che il caldo persistente umido rendeva ancora più appiccicoso. Le labbra di Katia si aprirono lentamente, con voluttà. Voleva gustare ogni istante di quel rituale a cui non sapeva più resistere. La cura che metteva nella preparazione dei suoi dolci era qualcosa di estremo, un puntiglio messo al servizio della cattura degli insetti. Le piccole vite scricchiolarono sotto i denti, mentre la mascella si muoveva lentamente, assaporando il momento. Masticava a occhi chiusi, mentre i succhi gastrici, provocati a lungo, attaccavano ogni boccone provocando ondate di acidità. Era abituata e avrebbe affrontato qualunque gastrite, pur di vivere intensamente ogni istante di quel piacere a cui non voleva dare un nome.

Mirko in camera respirava lento, ogni tanto un sibilo rompeva il silenzio della casa dai muri scrostati. Il ronzare del frigorifero era un palpito di vita nella desolazione circostante, ma ormai i timori che l’energia elettrica li abbandonasse aveva lasciato il posto a un’attesa rassegnata. Le riserve erano più di quello che si aspettassero, oppure le fonti continuavano in qualche modo a funzionare e la poca luce che filtrava dalla massa di nuvole era sufficiente per i pochi abitanti rimasti.

Dopo la colazione, sentiva sempre il bisogno di una passeggiata. Le sembrava un’abitudine sana, ma in realtà lo faceva per non pensare all’acidità che dallo stomaco ribolliva fino alla gola. Il momento in cui le mosche ancora vive scricchiolavano vicino alle sue gengive era il culmine di un piacere tanto atteso, a cui seguiva una lenta sopportazione del ribollire che dal suo stomaco le procurava dolori persistenti fino al pasto successivo. La strada era piena di buche, lente file di formiche attraversavano nella loro perpetua corsa tra i formicai e le case da cui portavano via ogni riserva rimasta. Stava attenta a non calpestarle, nel caso qualcuno la osservasse. Anche le formiche non le dispiacevano, ma avrebbe dovuto raccoglierne una grande quantità per un godimento effimero. Meglio le mosche, grassocce e ronzanti. Ormai quasi tutte le case del suo quartiere erano disabitate, le grondaie pendevano dai tetti in geometrie oblique, da cui gocciolava un’acqua mista a ruggine, residuo di piogge dimenticate. Alcune porte erano sfondate e negli interni si intravedevano scene di distruzione desolata: divani sventrati, tavoli rovesciati, abbandonati all’arbitrio vorace dei tarli. Da quegli interni veniva sempre un silenzio agghiacciante, il lavorio della disgregazione sembrava troppo lento, frenato dall’aria calda e ferma, intrisa di un fetore di decomposizione che Katia non sentiva più, ma sapeva presente, come se potesse vederlo aleggiare tra gli atri vuoti.

Le case abitate si notavano subito: le porte sprangate, qualche luce oltre le finestre. A volte, addirittura, c’era chi si prendeva la briga di strappare le erbacce che avevano inondato il cemento, spaccato l’asfalto, soffocato ogni residuo di vegetazione curata. Qualcuno provava anche a coltivare delle verdure, ma ogni germoglio era puntualmente divorato dagli insetti, i nuovi padroni della città da un tempo che Katia non riusciva più a quantificare. L’evoluzione della situazione le era sembrata inevitabile, addirittura naturale, con una popolazione, quella umana, che diminuiva e l’altra che cresceva incontrastata. Le case abitate erano punti isolati, sparsi tra le vie che non avevano più un nome. Conosceva qualcuno, non mancava chi le rivolgeva la parola: collegava i volti a una zona, gli abitanti come piccoli feudatari di una porzione di villaggio. Solo lei aveva dei vicini di casa, per quanto ne sapesse.

Quando lei e Mirko erano arrivati in città, cenciosi e disperati, non avevano che l'imbarazzo della scelta. Dopo il disastro, nessuno si formalizzava sull’occupazione delle case: andate dove volete, purché non ci sia già qualcuno. Questa legge non scritta era dettata dal buon senso e dall’abbondanza di spazio a disposizione, non certo dal fatto che gli umani si sentissero in qualche modo più fratelli. Era caso mai l’accresciuta diffidenza a lasciar correre su quel particolare trascurabile.

E loro si erano infilati in quell’enorme bifamiliare, abitata solo per metà: una parte era spoglia, maestosa nella vetustà dei cornicioni, del tetto solido, ancora intatto, degli infissi che non avevano ceduto. L’altra era invasa dall’edera, gli arbusti si alzavano sul vialetto d’ingresso incrostato di guano, famiglie di topi si diedero alla fuga sotto i passi della coppia. Avanzavano come due sposini verso il nuovo futuro, mentre due occhi torvi li squadravano dalle tende pesanti appena mosse.

Anche adesso, dopo tanto tempo, Katia non si spiegava il perché di quella scelta, forse la vicinanza li faceva sentire sicuri, oppure quell'ordine, che a pensarci metteva i brividi, li aveva attirati come una trappola e lentamente lanciava le sue putride metastasi sulle loro vite, assorbendo quanto poteva. Non erano riusciti ad andare via e in qualche modo quello che stava succedendo a Mirko andava portato a compimento. Pensò al suo uomo, disteso in quel letto che non aveva più un colore, e svoltò nella via che l’avrebbe condotta a casa del tenore. Forse un po’ di musica le avrebbe aggiustato i pensieri che stavano prendendo le solite traiettorie disordinate, come una cimice che si schianta contro i vetri ancora e ancora.

La grande villa, troppo grande, era isolata, là dove le altre abitazioni si diradavano e lasciavano spazio ai campi incolti, infestati da cavallette. Nugoli di moscerini si libravano sulla sua testa e la seguivano, capitava sempre e non se ne liberava se non quando smetteva di pensarci. Tra tutte le case abitate, quella era l’unica per cui nutrisse un qualche interesse: la faccia grassa e rubiconda che non disdegnava di mostrarsi dietro ai vetri a volte regalava un sorriso, anche se era difficile dire se vi fosse un corpo a sostenerla. Si vedeva solo il viso, sempre nella stessa posizione, circondato dal buio, appariva oltre gli infissi, scostava le tende pesanti e guardava se vi fosse qualcuno fuori, poi iniziava il suo canto. Si chiariva la voce e procedeva sempre con una musica diversa. Erano melodie lente, tristissime, ogni volta in una lingua incomprensibile. La voce andava alta, limpida e potente, mentre una musica leggera, come di organetto, vigilava che le note fossero sempre al loro posto. Katia non conosceva nessuna di quelle canzoni, erano lunghe e tutto sommato pesanti, ma non poteva fare a meno di restarne rapita. Anche quella volta ignorò tutto il resto per la durata dell’esibizione: sembrava che il tenore alternasse solo vocali, una composizione liquida che scorreva come un fiume largo e placido, eppure non privo di insidie. Quelle che si susseguivano erano parole, nessun dubbio in proposito, ma alle sue orecchie non potevano unirsi in nessuna sintassi che desse loro anche un'apparenza di senso. Le tonalità cambiavano, tanto che era impossibile seguire una linea melodica che poi si stampasse nella mente, eppure non aveva mai sbadigliato durante i canti del tenore, la noia correva via, insieme a tutti i dubbi e le ansie che costellavano la vita di chiunque. Quando si riebbe, come sempre, vide che era stata punta. Le vespe arrivavano in quei momenti di rapimento e facevano i loro scherzetti, senza che nessuno le disturbasse: aveva tre falangi gonfie, rosse e doloranti, le gambe punteggiate da punture di zanzare e moscerini erano il regno del prurito, ma sapeva che non doveva toccare nulla, lasciare che la natura agisse sul suo corpo senza interferire. Forse il prezzo da pagare per l’esibizione era proprio quello, d'altra parte in casa del tenore succedeva qualcosa di simile a ciò che poteva notare dai suoi vicini: nessun insetto. La casa era pulita, nel giardino regnava un ordine sconosciuto, poca erba secca non infestava i vialetti e il tutto si staccava dalla decadenza generale. Ma se in casa del tenore l’effetto era complessivamente piacevole, dai suoi vicini metteva angoscia.

Mentre scrutava tra le tende per scorgere uno spostamento, sentì del movimento alle sue spalle e capì di non essere da sola. Non era l’unica che cercava sollievo nelle note del tenore durante quelle giornate interminabili, fatte solo di silenzio, ronzare, preparazione di dolci e fugaci visite per verificare lo stato in cui versava Mirko. Si voltò lentamente, era difficile capire se la presenza alle sue spalle fosse o meno amichevole: per quanto poche fossero le presenze umane in città, faticava a ricordarle e pochi erano i visi che aveva stampati nella memoria. Si sentiva come un eremita che di tanto in tanto incrociava un suo simile, ma una voce interiore le suggeriva di ignorarlo e continuare per la sua strada. Ricordava il tenore, un paio di donne anziane con cui aveva scambiato qualche parola durante la pioggia dell’ultimo autunno e naturalmente i vicini, anche se li aveva visti pochissime volte prima del litigio che aveva tracciato un solco invalicabile tra le loro esistenze.

Quando ebbe completato il giro di 180 gradi per cambiare la sua prospettiva, lo sguardo indagò l’essere che aveva di fronte a lungo prima di poterlo classificare in una delle categorie a lei note. Alla fine furono più i ricordi della sua vita passata che le sue conoscenze attuali a classificare quell’individuo come “bambino”. Non ne vedeva da anni, forse non ne aveva mai visti, se non guardandosi allo specchio in epoche passate, quando il disastro non aveva ancora modificato il mondo, rendendolo la sfera grigia, calda e umida infestata da insetti che era in quel momento. Il ragazzino aveva grosse guance rosse, una zazzera di capelli incollata in qualche modo alla fronte e due occhi enormi, spalancati, che fissavano Katia senza battere le palpebre. Due gambe grassocce spuntavano da pantaloncini troppo stretti e la maglietta a strisce non copriva del tutto la pancia, che usciva strizzata, mostrando pieghe rossastre sotto l’ombelico. Un brutto bambino, nel complesso, ma ciò che in effetti la disturbava, più che quel ventre massacrato sotto una cintura che doveva essere una tortura, erano gli occhi: chiari, enormi, indagatori. Forse, pensò, anche lei poteva fargli paura con la sua bocca sporca di glassa e le gambe martoriate dalle punture.

Le labbra del bambino tremarono prima di muoversi per articolare suoni riconoscibili. Alla fine buttò fuori una vocina acuta, simile a un miagolio: – Io… io sono Zak. – La presentazione la lasciò interdetta, le diede l’idea di un’educazione che non si sarebbe aspettata da nessuno.

– Zak – disse Katia. Non appena sentì il suo nome pronunciato da lei, il bambino trasalì e prese due ampi respiri per restare calmo. – Che nome è Zak?

– Sarebbe Zaccaria, ma non mi piace – rispose lui.

– Zaccaria, hai sentito anche tu il tenore? – Katia sentiva che non poteva andarsene senza prima un po’ di conversazione. Sarebbe stato il suo impulso, ma capiva che la persona davanti a lei non meritava l’indifferenza di cui si vestiva normalmente.

Il bambino non rispose, abbassò lo sguardo verso le mani che teneva unite a coppa e fece un timido passo verso Katia. Le porgeva qualcosa, un piccolo cartoccio che voleva donarle con evidente timidezza.

– Io… io ti ho vista altre volte… e… insomma, questo l’ho fatto per te – le parole erano uscite a stento, inframmezzate da sospiri e colpi di tosse.

Lei lo prese con delicatezza, era grande quanto un palmo e con una consistenza molliccia. Sbirciando attraverso l’involto vide che era un pasticcino: pasta frolla mal cotta con crema e una fetta di un frutto di un giallo pallido che al momento non seppe individuare. Evidentemente quel ragazzino viveva da solo in una casa non troppo distante da quella del tenore.

– Per te – disse.

Katia fece per aprirlo, ma lui la interruppe con un grido che era più un sibilo: – Non qui! Arriveranno le mosche. Le mosche rovinano sempre tutto quello che faccio –. Gli occhi, sempre enormi, assunsero un’espressione implorante che non si addiceva a quel viso paffuto.

Katia ricompose con cura l’involucro e disse: – Tu abiti qui? Sei solo? – Sapeva che mostrare interesse era un errore, ma non poteva non vedere soddisfatta la sua curiosità sull’unico bambino che avesse mai incontrato.

Zak fece un gesto vago, che indicava qualcosa in fondo alla via. Lei vide qualcosa che si muoveva, un animale a quattro zampe, forse un cane. Attraversava lentamente la strada, tenendosi a grande distanza da loro.

– Sei stato molto gentile a farmi questo regalo, sono certa che sarà buonissimo – disse nel tono più dolce che conosceva.

– Non lasciare che le mosche lo prendano – riprese lui col tono di prima – le mosche rovinano tutto… tutto! – Con una mano le strinse il braccio che reggeva il pasticcino, sentì le dita morbide che la afferravano fino a pizzicarla e torse il braccio per liberarsi. Nel compiere quel gesto il pasticcino cadde e lei lo fissò terrorizzata. Zak non mollava la stretta e sembrò non essersi accorto dell’incidente. Continuava a fissarla con quei grandi occhi imploranti che si stavano riempiendo di lacrime.

Dal fondo della via giunse un latrato, Zak si voltò e lasciò la presa e Katia ne approfittò per correre via senza voltarsi. Sentiva ancora quei grandi occhi appiccicati alla sua schiena madida di sudore.

Nel ritorno, sbagliò strada e ne fu felice. Era come trovarsi in un mondo nuovo, lontano dalle strade che percorreva sempre per passeggiare, ascoltare il tenore, procurarsi il cibo. Tutti si procuravano il cibo in tanti posti, ma lei non deviava mai, andava dritta alla Botteguccia – così diceva un cartello penzolante all’ingresso – dove c’era tutto quello di cui aveva bisogno. Poche facce note, nessun pericolo degno di nota. Adesso si trovava in un quartiere che non aveva mai visto, una zona residenziale con villette tutte uguali che un tempo dovevano essere coloratissime, adesso erano un mucchio di muri scrostati da cui trasparivano timidamente chiazze di rosso, arancione, fucsia. Un pugno nell’occhio stagliato sul grigio del paesaggio. Sembravano tutte disabitate, nei giardini crescevano piante dalle foglie grandi, piene di bruchi grigi che lasciavano dietro di sé scheletri di vegetazione. Le formiche marciavano in lunghe file sui muri mentre le cicale lanciavano il loro grido fastidioso nell’aria pesante. Katia sentì svanire le note del tenore in un nulla che risucchiava ogni altro rumore. Rimaneva solo il frinire, che feriva i timpani come uno sferragliare di lamiere contorte. Eppure non riusciva a essere veramente preoccupata, era comunque un posto nuovo, un’evasione dai percorsi consueti. A ben pensarci, anche l’incontro con il bambino lo era stato, ma voleva cancellarne il ricordo al più presto: sentiva ancora la pressione delle dita grassocce e umide sul suo braccio, il pasticcino nella polvere della strada le ricordava un organo in decomposizione, caduto da chissà quale nido putrescente.

Quelle villette la chiamavano. Non era una che entrava nelle case abbandonate, ma quei colori tutti in fila costituivano una sorta di richiamo da cui voleva lasciarsi stuzzicare. Ne scelse una con i muri azzurro pallido, scostò il cancello con circospezione, tra la sterpaglia c’era una sorta di spazio che poteva assomigliare a un sentiero. Dall’interno nessun rumore, le finestre sfondate lasciavano pensare a una casa abbandonata da tempo. Sul retro c’era un’altalena arrugginita, una fontanina addossata al muro divisorio, i resti di un tavolino di plastica. Pennellate già viste su una tela strappata. Katia pensò che non sarebbe entrata solo per vedere altra desolazione. Le era sufficiente quella che respirava ogni giorno. In quel momento le sarebbe piaciuto avere con sé il pasticcino del bambino, l’avrebbe lasciato in terra fino a quando, invaso dalle formiche, sarebbe diventato un ammasso nero di vita brulicante intrappolata nel dolce viscidume. Il pensiero le fece brontolare lo stomaco, ancora tormentato dal reflusso acido della colazione.

Fu mentre usciva a passi lenti dal cancello che lo vide. Lo scarafaggio attraversò la strada e quando lei fece cigolare il cancello si bloccò, girandosi verso di lei. Non aveva nulla delle blatte che a volte, da bambina, vedeva fuggire da sotto gli stracci umidi. Era grosso come un ratto, con zampe massicce, “muscolose” era l’aggettivo che le veniva in mente, anche se sapeva che non aveva senso. Rimase lì alcuni secondi a fissarla con quelli che le sembrarono occhi. Non aveva mai visto gli occhi di uno scarafaggio, in quel coso spuntavano due aperture nere proprio sotto le antenne, luccicavano nella sua direzione. Sotto, verso l’addome, un’apertura che poteva essere una bocca o una piccola proboscide con qualche dente dalla forma indefinita. Se l’avesse caricata, pensava, avrebbe potuto spezzarle le caviglie.

“Piccolo Jenkin”. Il nome, letto chissà dove in un’epoca passata, quando ancora c’era qualcosa da leggere, le uscì dalle labbra senza che lo volesse in un sussurro che non riconobbe come suo. L’insetto, sempre che lo fosse, approfittò del rumore per correre via e infilarsi in un tombino aperto. Era veloce, una scia nera sul serpente grigio della strada deserta.

Quando rientrò era pomeriggio inoltrato. La sua casa, nella luce che scemava, era quasi accogliente. Vicino, la metà dei vicini era illuminata. Dalla finestra lo guardava la vecchia: vide i suoi occhiali carichi di sdegno che non si distolsero quando fissò in essi il suo sguardo. Lui non si vedeva, ma poteva giurare che fosse dietro di lei, le sue parole velenose stavano riempiendo l’aria di insulti nei confronti di Katia e Mirko, anche se non l’aveva più visto dopo il litigio. Entrò in casa di fretta. Anche se aveva bisogno di mangiare, voleva controllare il suo uomo, senza disturbarlo. Uno sguardo silenzioso al suo respiro debole sarebbe bastato.

Lo amava ancora, suo malgrado. Sempre più rattrappito, era difficile distinguerlo dal materasso lercio su cui giaceva da settimane. Una lieve peluria dalla consistenza del velluto aveva coperto la sua pelle, le palpebre erano unite da una sostanza giallognola appiccicosa, le labbra bianche non lasciavano uscire nessun suono, ma cominciavano a spuntare due punte simili a ganci, come un’ulteriore mandibola. I respiri erano velocissimi, ravvicinati, ma difficili da percepire. Uno sguardo distratto l’avrebbe preso per morto, ma lei sentiva il suo palpitare sotto quella peluria che lo rendeva irriconoscibile. Era mostruoso, ma continuava a trovarlo affascinante e ad avvampare alla sola idea di unirsi con lui. Non poteva svegliarlo, interrompere quello che credeva un processo di metamorfosi. Si accontentava di riempirsi gli occhi di quel cambiamento che trovava irresistibile, un misto tra attrazione sessuale e fame a cui non sapeva dare un nome.

Doveva compensare i suoi impulsi in qualche modo, quindi corse in cucina. Qualcosa con la crema, e pasta sfoglia. Zucchero, tanto zucchero. I gesti sapienti arrotolarono una serie di cannoncini lucidi, gonfi. Li avrebbe mangiati crudi, ma sapeva che i dolci andavano assaporati con lentezza, prevedevano fasi che non andavano saltate. Lei li conosceva, sapeva di essere la migliore tra tutti i superstiti, anche se dalla casa dei vicini si sprigionavano profumi in grado di risvegliare sensi sopiti e ricordi cancellati dal tempo e dagli stenti. E poi doveva aspettare gli insetti, lasciare che la loro attrazione per lo zucchero diventasse una trappola mortale e poi sentirli scricchiolare sotto i denti per entrare a far parte di lei. Tante vite per nutrirne una più grande e più importante. Poteva quasi vederle, le proteine: nel suo stomaco gli insetti vorticavano fino a scomporsi in piccolissime eliche di DNA che dall’intestino andavano in tutte le direzioni a fondersi nei suoi tessuti: così viveva, cresceva, prendeva forza. Le vampate di acidità non erano altro che il prezzo da pagare per il sacrificio di tante vite.

Lavorava veloce, non riusciva a togliersi dalla testa l’immagine di Mirko: si sovrapponeva a quella dello Scarafaggio Piccolo Jenkin che aveva visto nel quartiere colorato. Dal muro di confine pareva sprigionarsi uno strano calore, come se tutta la casa dei vicini si fosse trasformata in un intero forno che produceva delizie inimmaginabili. Era distratta, i cannoncini prendevano forme irregolari, la crema era troppo liquida, ma dal suo stomaco, vuoto dalla mattina, venivano segnali inequivocabili, morsi della fame impossibili da ignorare.

Infornò una piccola teglia con sei pasticcini, e rimase lì a guardare con trepidante attesa, la ciotola con la crema tra le mani. Due si bruciarono dopo pochi istanti, gli altri non prendevano colore, rimanevano pallidi, ma poi scoprì che la parte inferiore era carbonizzata. Per la prima volta dei dolci non le venivano. La crema usciva, non rimaneva compatta al centro, anche perché non c’era un vero centro, più un solco fra briciole scure ricompattate in qualche modo.

Katia piangeva, guardava la sua orrenda creazione e non voleva arrendersi all'evidenza: gettarli via era una soluzione che non contemplava, un gesto che le era estraneo. Tutto sommato, pensava, gli insetti non sarebbero stati così schizzinosi. Mise il vassoio sul davanzale, ormai era sera e qualche zanzara l’avrebbe rimediata. Invece che rimanere in attesa, decise di distrarsi. Si stese su ciò che restava del divano: cuscini sformati e molle che uscivano senza una vera copertura. Con gli occhi chiusi cercò di richiamare alla memoria la lunga ed estenuante melodia del tenore, ma tutto ciò che sentiva era la voce chioccia di Zak che la implorava di stare attenta alle mosche in modo continuo e ossessivo. I suoi occhi spalancati si trasformarono in fari che la accecarono e resero tutto il mondo un uniforme mare di latte in cui galleggiavano puntini neri: erano scarafaggi che nuotavano verso di lei, gli occhi neri spalancati e la bocca gocciolante di una pappetta gialla.

Si svegliò a notte fonda, solo il ronzio del frigorifero rompeva il silenzio agghiacciante della notte. Proprio il silenzio l’aveva svegliata, quella pace strana, senza il cantare dei grilli e il ronzare che riempiva sempre il cielo notturno. La notte nessuno si avventurava mai per le strade, l’oscurità si popolava di insetti mai visti che producevano rumori nuovi, terribili. Solo la porta dei vicini sbatteva qualche volta dopo la mezzanotte: ne uscivano fischi ritmati e rumori gutturali a cui era difficile dare un senso, ma avevano in qualche modo a che fare con la bolgia di suoni che appestava l’aria nera.

Quella notte niente, nemmeno un alito di vento a colpire le finestre.

Katia corse al davanzale per vedere se qualche piccolo ospite aveva deciso di annegarsi nella crema pasticciera troppo liquida, ma comunque dolcissima. Niente. I cannoncini giacevano inerti come bruchi calpestati, nessuna traccia di vita nel composto che si era sparso sul vassoio, inzuppando la sfoglia bruciacchiata.

Voleva piangere, ma più di tutto la stava assalendo una fame irrazionale, quella che non ti fa aspettare. Una fame atavica, che non aveva niente a che vedere con il bisogno di nutrirsi. Fuori dalla porta percepì un lieve ticchettio, suoni sommessi contro il legno che risaltavano nel silenzio abissale a cui non era abituata. Aveva paura, ma voleva aprire. Immaginava le dita grassocce di Zak che picchiettavano nell’attesa del mattino: lui era là dietro, pronto a stringerla e minacciarla. Eppure c’era qualcosa di lieve in quel bussare, un frullare d’ali indistinto.

Prese un ampio respiro e si fece coraggio: non appena aprì, il buio della strada invase quello della casa e sembrò inghiottire ogni spazio con la sua presenza quasi palpabile. Ma c'era anche altro: cinque falene enormi si intrufolarono nell’ingresso, le ali lasciarono cadere un po’ di polvere marroncina sul viso di Katia. Gli insetti sbatacchiavano a casaccio contro i muri, disorientati dall’apertura della porta.

Katia accese una lampadina, l’unica che funzionasse, ma non sembravano attratte dalla luce. La loro danza era un movimento angosciante contro ogni ostacolo che Katia non riusciva a seguire. I corpi tozzi sembravano decisamente troppo grandi per quelle ali, eppure volavano veloci verso il loro destino di autodistruzione. Dalla camera venne un sibilo smorzato, quasi un fischio. Allora le falene, senza indugio, imboccarono le scale in formazione, un volo compatto e ordinato verso una meta precisa. Sulle prime Katia rimase interdetta, ma poi decise di seguirle fino al piano di sopra dove Mirko giaceva da giorni. Andò diretta in camera, ma là c’era solo il suo amato. Una strana luce riverberava dal suo corpo, che ora sembrava avvolto in un bozzolo leggerissimo. La seta era trasparente, sotto, le gambe erano unite in un unico tronco da cui iniziavano timidamente a spuntare sei zampette. Il viso era ancora riconoscibile, ma sembrava quello dolce di un ragazzo appena entrato nella pubertà. La parvenza di una bocca lasciava uscire due piccole mandibole e una sottilissima proboscide, qualcosa avvolgeva le spalle come un mantello, forse un accenno di ali argentate.

Katia non sentiva più niente al di fuori dei richiami del suo stomaco. Avvicinò la bocca al bozzolo, all’altezza dell’addome, ma dovette ritrarsi dolorante. Piccoli peli si erano infilati nella sua lingua, che adesso si stava gonfiando come una salsiccia irregolare quasi fino al palato. Respirava a fatica e un terrore nero si impossessò di lei. Mirko era avvolto in un bozzolo avvelenato e mentre cadeva percepì distintamente le risate dei vicini che ascoltavano il suo annaspare. Scese le scale, cercando di raggiungere la porta senza un particolare motivo. Quando la aprì lei era lì, la vecchia sulla sua carrozzina. Dai piedi senza dita uscivano decine di larve aggrovigliate, gli occhi emanavano un chiarore verdastro e le mani artritiche, ormai ridotte a due insetti stecco, accarezzavano una creatura che aveva in grembo: lo Scarafaggio Piccolo Jenkin la guardava dai pozzi neri dei suoi occhi, dalla bocca uscivano scricchiolii indistinti, mentre il marito della vecchia, che ancora non era uscito, soffocava dalle risate. I suoi rantoli erano peggio di quelli di Katia, ma mentre lei annaspava al suolo sotto lo sguardo severo della vicina, l’uomo si faceva sempre più rumoroso, come per farle capire che moriva ridendo della sua agonia.

C’era un po’ di sole il giorno in cui Katia e Mirko erano arrivati alla casa. Che cosa li avesse attirati lì era impossibile da dire, forse proprio quella metà così pulita e austera in cui vivevano i vicini. Sembra che gli insetti li evitassero, o meglio, obbedissero ai loro divieti con rispetto e deferenza. Si erano parlati qualche volta, addirittura Katia aveva regalato alla vecchia dei cioccolatini fatti da lei. Tutto era cambiato quando avevano cominciato a costruire il portico. Fantasticavano di un riparo per gli alveari, di una garanzia di una casa più asciutta e ombreggiata. Parlavano addirittura di un figlio, ma forse volevano solo tenersi impegnati e avere l'illusione di un progresso nelle loro vite. La decadenza di tutte le abitazioni poteva, alla lunga, togliere la voglia di vivere. E poi loro avevano lo svantaggio della magione intonsa dei vicini, con cui condividevano un muro. Mirko ci lavorava giorno e notte, aveva rubato il legno nelle case abbandonate e ci sapeva fare con le mani. Erano giorni di grande entusiasmo, al punto che non si erano accorti che qualcosa si era rotto con i vicini.

Avrebbero dovuto capirlo. Occhiate torve, porte che sbattevano quando loro uscivano, una fitta rete issata tra i due giardini. Poi, quando sul retro il lavoro iniziava a prendere forma, la rottura. Lui era arrivato di sera, era entrato senza bussare mentre Katia preparava una crostata. L’aveva guardata in silenzio e lei aveva quasi rovesciato a terra tutto il suo lavoro per lo spavento, quando si era accorta di una presenza alle sue spalle.

– I muri di questa casa non sono poi così solidi – aveva sibilato il vicino con una voce che le era parsa nuova.

– Hanno retto finora all’abbandono, – rispose lei piccata – reggeranno anche una piccola tettoia. Buonasera, comunque.

– Sta male. E toglie il sole – aveva risposto lui quasi gridando.

– Quale sole? – la domanda di Katia rimase sospesa nell’aria, mentre lui continuava a fissarla senza muoversi. In quella situazione di stallo un fortissimo fragore era venuto dall’esterno. Quando Katia uscì vide Mirko a terra, la scala rovesciata, mentre un’ombra sottile fuggiva dallo scheletro di quella che avrebbe dovuto diventare la tettoia. Il cigolio delle ruote della carrozzina si allontanava lungo il vialetto d’ingresso, ma loro non l’avevano vista.

Diceva di aver perso l’equilibrio e di volersi solo stendere un po’. Non si sarebbe più rialzato dal quel letto. Almeno, non come Mirko.

Quando si riebbe, Katia vide la luce del sole ferirgli gli occhi. Un sole vero, splendente, che filtrava tra le nuvole e dava un significato diverso a tutti i colori del mondo. Erano vivi, veri, anche se nascosti in gran parte sotto la vegetazione secca. La lingua era ancora enorme, secca. Non stava nelle labbra e penzolava sul mento alla ricerca di un riparo umido che le era negato. Katia respirava a fatica, si trovava all’aperto, stesa su un marciapiede che non conosceva, vicino a un prato da cui spuntavano radi fili d’erba verde. Un’ombra le tolse la luce del sole: Zak era di fronte a lei, il suo sguardo era tranquillo, premuroso.

– Tieni – disse a bassa voce e reggendole la testa iniziò a spalmarle la lingua con qualcosa di dolce e appiccicoso. Dalla consistenza sembrava miele, ma aveva un che di sofisticato e artificiale. Di sicuro aveva preparato lui quella pappetta dolciastra che bruciava un po’.

La ragazza mugugnò qualcosa, avrebbe voluto dire che aveva una sete terribile, che quella robaccia dolce non faceva che acuire la sua sofferenza, ma le uscivano solo sillabe strozzate e suoni gutturali.

– Ssssh… – disse Zak portandosi un dito alle labbra. – Non ringraziarmi, non adesso. Solo, sta’ attenta alle mosche, ok? Le mosche rovinano sempre tutto. –  Mentre parlava le accarezzava dolcemente la fronte sudata. Rimase così, in silenzio, per quella che sembrò un'eternità. Poi, quando lei chiuse gli occhi, si allontanò in silenzio, lasciandola sul marciapiede da sola, in compagnia solo dei ronzii sempre più forti che si avvicinavano, attratti dal dolce richiamo di quella lingua sformata, intrisa di umori irresistibili.

Il sole era scomparso di nuovo e l’oscurità avanzava con una velocità che le sembrò impossibile, innaturale.

Oltre il ronzio percepì un frullare mefitico che sembrava voler cacciare gli insetti come se fossero un fastidio. L’idea che potesse trattarsi di Mirko in forma di falena le diede un senso di pienezza mai provato, quasi soddisfazione. La lingua pulsava e incominciò a inumidirsi, la gelatina dolce si mischiò alla saliva e prese a colarle lungo il mento in un intruglio voluttuoso. Voleva essere parte della trasformazione, fondersi con lui, anche se ancora non lo vedeva. Sentiva il frullare d’ali sempre più vicino, ma nessuna presenza si profilava all’orizzonte che si tuffava nel buio.

Tuttavia le restava un pungolo che la tormentava come un sassolino che raschia la pianta del piede a ogni passo. Il portichetto sarebbe rimasto incompiuto e i vicini avrebbero di certo mandato qualcuno a smontarlo. Forse, a quell’ora, avevano già tolto la trave, un bel pezzo di legno multistrato che aveva resistito al tempo. Avevano vinto loro.