Paolo Bertetti svolge attività didattica e di ricerca presso l'Università di Siena. È autore di diverse pubblicazioni sul cinema, la fantascienza e l'immaginario di massa, oltre che di studi di teoria e analisi semiotica. Nell'ambito fantastico ha curato con Carlos Scolari Lo sguardo degli Angeli. Intorno e oltre Blade Runner (Testo & Immagine, 2002) e ha scritto Conan il mito. Identità e metamorfosi di un personaggio seriale tra letteratura, fumetto, cinema e televisione (Pisa, ETS, 2011), mentre nell'ambito della semiotica del cinema ha pubblicato Il racconto audiovisivo. Teorie e strumenti semiotici (Cartman, 2012). I suoi lavori più recenti sono Che cos’è la transmedialità (Carocci Editore, 2020) e Transmedia Archaeology. Fantascienza, Pulp, Fumetti (con C. Scolari e M. Freeman, Armando Editore, 2020).

È coordinatore scientifico del Mufant, Museo della Fantascienza e del fantastico di Torino.

E proprio di fantascienza e narrazione transmediale abbiamo discusso con il professor Bertetti in quest’intervista, dove approfondiamo il tema che ci sembra centrale nell’attuale modo dell’entertainment audovisivo.

Che cosa s’intende per transmedialità? 

Il concetto di transmedialità si fa risalire ai primi anni ‘90, all’opera seminale di Marsha Kinder (1991), che introduce il termine parlando di transmedia intertestuality. La Kinder era una psicologa che studiava in che modo i bambini sviluppassero la capacità di comprendere una narrazione e, in particolare, di riconoscere ambientazioni e personaggi che, come nel caso delle Tartarughe Ninja, venivano loro proposte in diversi formati mediali: disegni animati, fumetti, film ecc. La fortuna del termine si deve però a Henry Jenkins, che in articolo uscito nel 2003 sulla rivista del MIT, introduce l’idea di transmedia storytelling, espressione che potremmo tradurre in italiano come “narrazione transmediale”. Jenkins definisce il transmedia storytelling come “un processo dove elementi integrati di una narrazione vengono dispersi sistematicamente attraverso molteplici canali con lo scopo di creare un’esperienza di intrattenimento coordinata e unificata”. Una narrazione transmediale è quindi come un grande puzzle, all’interno del quale ogni nuovo tassello (che può appartenere ai media più diversi) offre un contributo originale e contribuisce ad arricchire la complessità dell’universo narrativo.

L’esempio fatto da Jenkins è quello del franchise costruito intorno a Matrix dei Wachowski, che all’epoca (il film è del 1999) rappresentava il tentativo forse più compiuto e strutturato di sfruttare le possibilità offerte dalla convergenza mediale per andare oltre la dimensione cinematografica e costruire nuove forme di narrazione seriale. Come noto, Matrix è il primo di una serie di tre film (ai quali si è aggiunto proprio lo scorso anno un nuovo, quarto capitolo), che nel loro insieme raccontano la lotta di Neo e di un gruppo di ribelli contro le super-intelligenze artificiali che tengono schiava l’umanità, in un universo fantastico nel quale il nostro mondo reale è solo un sogno indotto artificialmente. Tuttavia, lo svolgimento completo della narrazione si estendeva ben oltre i tre film: contemporaneamente all’uscita del secondo film, Matrix Reloaded, apparvero infatti un videogioco, Enter The Matrix, e una serie di nove cortometraggi di animazione, The Animatrix, che presentavano ulteriori tasselli del vasto affresco narrativo dei Wachowski, raccontando episodi non presenti (o solo accennati) nei film. Ad esempio, uno dei cortometraggi di animazione, L’ultimo volo dell’Osiris, racconta la vicenda di Jue, un membro della resistenza che sacrifica la sua vita nel tentativo di consegnare una lettera con importanti informazioni sui piani delle intelligenze artificiali; in Enter the Matrix il primo percorso di gioco consiste nel recuperare in un ufficio postale tale lettera e consegnarla ai ribelli. Infine, all’inizio di Matrix Reloaded si discute proprio delle informazioni contenute nella lettera. Ma non basta: ad arricchire ulteriormente l’universo narrativo di Matrix vi è anche una serie a fumetti, realizzata da disegnatori di prestigio, apparsa originariamente in rete e successivamente pubblicata nei due volumi di The Matrix Comics (2003-2005), mentre nel 2005 sono apparsi il MMORPg (cioè Massive[ly] Multiplayer Online Role-Playing Game, ovvero gioco di ruolo in rete multigiocatore di massa) The Matrix Online, che prosegue la storia dopo la fine di Matrix Revolution, e il videogioco The Matrix: Path of Neo.

Certo, nessuno di questi ulteriori tasselli è realmente necessario per la comprensione della storia, e tuttavia ogni frammento mediale dà un suo contributo distinto all’affresco narrativo generale: la fruizione dei diversi testi attraverso i vari media arricchisce la conoscenza della storia e offre al destinatario un’esperienza d’intrattenimento più ricca e coinvolgente rispetto alla sola visione cinematografica; ecco… questa è l’essenza di un’esperienza transmediale.

Si può confondere la transmedialità con la semplice trasposizione, ad esempio di un romanzo in un film. Qual è la differenza tra trasposizione e transmedialità? 

In effetti in entrambi i casi abbiamo il passaggio di elementi narrativi (ambientazioni, personaggi, storie ecc.) da un medium all’altro. C’è però una differenza fondamentale: nel caso delle trasposizioni ci troviamo di fronte a una riproposizione, che può essere più o meno fedele e completa di un contenuto già noto in una forma mediale diversa, come nel caso del Signore degli anelli di Peter Jackson, che “traduce” in film il romanzo di Tolkien. Le narrazioni transmediali sono invece caratterizzate dall’espansione dei contenuti narrativi attraverso media diversi; non ripropongono contenuti già noti in altri media, ma presentano contenuti sempre inediti e originali: nuove storie, nuovi personaggi ecc. che ampliano quindi il mondo narrativo. Si pensi, solo per fare un esempio tra tanti, alla serie televisiva The Mandalorian, che “espande” l’universo narrativo di Star Wars, o ai film e ai romanzi di Star Trek rispetto alle serie televisive.

Certo, non sempre la distinzione è così semplice. Prendiamo il caso di Harry Potter: i film del maghetto sono un classico caso di trasposizione, che traducono in immagini in movimento i romanzi della Rowling. Poi però sono usciti i due Animali fantastici, e qui ci troviamo di fronte a un’operazione autenticamente transmediale: si tratta infatti di due prequel, che però non appaiono più in forma romanzesca, ma cinematografica. Lo stesso si può dire di Harry Potter and the Cursed Child, un sequel che coinvolge un ulteriore medium, il teatro. Quello di Harry Potter è insomma un franchise misto, nel quale convivono aspetti transmediali e più tradizionali operazioni di trasposizione. Che è poi quanto accade in tantissimi media franchise contemporanei.

Una delle caratteristiche fondamentali della transmedialità è la presenza di un mondo narrativo. Ci spiega che cosa s’intende per mondo narrativo e quali altre caratteristiche sono cruciali per definire la transmedialità? 

Per appassionati di fantascienza e fantasy come possono essere i lettori di Fantascienza.com dire che questi due generi costruiscono mondi narrativi è quanto meno banale. Ma attenzione: in realtà ogni testo narrativo crea un suo proprio mondo immaginario, o – come dicono i teorici del racconto – un mondo possibile. Infatti, anche il più realistico di essi, ci presenta comunque situazioni e individui almeno in parte diversi da quelli del “mondo reale”.  Sembra paradossale, ma da questo punto di vista la campagna piemontese de La Malora di Fenoglio o l’Aci Trezza dei Malavoglia non sono molto diverse dal Mondo del fiume di P.J. Farmer o dalla Terra di Mezzo. Anche se, ovviamente, una differenza c’è. Robert Scholes, un noto teorico della letteratura che ha dedicato alla fantascienza un paio di importanti volumi (uno dei quali – Fantascienza. Storia, scienza, visione – uscito molti anni fa anche in Italia), parla a proposito della narrativa fantastica di “structural fabulation” per indicare come i mondi descritti da questi generi siano “strutturalmente” diversi dal nostro mondo reale: tali diversità possono riguardare, per esempio, l’ambito cosmologico o quello fisico, ma anche soltanto quello sociale o politico e così via. Su questa strada, un’altra teorica della letteratura, Marie-Laure Ryan, ha proposto un’intera tipologia dei generi letterari (fantastici e non), basandosi sul loro “scollamento” dal mondo reale. Mi sembra un approccio affascinante.

Tornando alla transmedialità, essa si basa proprio sull’esistenza di mondi narrativi più ampi, che rendono possibile una pluralità di narrazioni, realizzate su piattaforme mediali diverse, ognuna delle quali contribuisce ad arricchire la complessità di questi universi immaginari. Ogni testo di un franchise estende dunque la narrazione esplorando aspetti diversi di un più vasto shared world e mostrando svariati corsi d'azione. Non solo: secondo Jenkins proprio il worldbuilding – ovvero la capacità di costruire mondi immaginari – è l’elemento centrale che distingue queste forme innovative di sfruttamento mediale dai franchise tradizionali.

Ovviamente, per essere credibile e generare una buona esperienza transmediale, il mondo narrativo deve essere coerente e non contraddittorio. Da qui un’altra caratteristica centrale delle narrazioni transmediali: esse non solo non possono essere ridondanti (come nel caso delle trasposizioni che ripresentano contenuti già noti), ma devono essere anche coerenti e coordinate; spesso anzi sono frutto di un’attenta pianificazione. Secondo Jenkins è proprio questo il fatto di essere coerenti e non ridondanti che distingue i moderni franchise transmediali da altri tipi di franchise più antichi.

Nel suo libro Che cos’è la transmedialità lei parla di Star Trek come di un modello paradigmatico di transmedialità. Ci spiega perché? 

Star Trek ha costituito un momento importante nella storia delle serie televisive: con il successo e la durata delle sue varie incarnazioni, esso è il prototipo del prodotto televisivo di culto, seguito da un vasto stuolo di fan partecipi e appassionati. Star Trek è stata (assieme in misura diversa a Doctor Who) la prima serie televisiva a creare un universo immaginario vasto, complesso e dettagliato che si distingue per la sua coerenza e continuità. Quello costruito da Roddenberry è uno spazio narrativo vastissimo, organizzato secondo una logica interna e in continuo ampliamento. Tale espansione è funzionale a una fruizione di tipo immersivo che va al di là del semplice entertainment e tende piuttosto a soddisfare il desiderio degli appassionati di essere coinvolti nell’esperienza (reiterabile) di universi immaginari. Un’esperienza immersiva le cui dimensioni vanno oltre il singolo testo e persino oltre il singolo media: infatti, si è prolungata attraverso le varie stagioni e le diverse serie televisive di Star Trek, per approdare al cinema, ai cartoni animati, ai romanzi, ai videogiochi, fino alle produzioni amatoriali e alle pratiche di fandom (si pensi al fenomeno del cosplay). Così facendo, e nonostante questo sviluppo sia stato più spontaneo che pianificato, Star Trek è diventata anche un modello di riferimento per tutte le narrazioni transmediali successive.

Alcuni dei franchise transmediali più noti, anche ad un grande pubblico, sono di fantascienza. Si può affermare che la fantascienza è un genere che ben si sposa con la transmedialità? 

Fantascienza e fantasy sono i generi “costruttori di mondi” per eccellenza, e come abbiamo visto la costruzione di grandi mondi narrativi è un elemento centrale del transmedia storytelling. Certo, ogni testo narrativo costruisce mondi possibili, ma per questi due generi il worldbuilding è in un certo senso una “necessità strutturale”, per riprendere la definizione di Scholes, ancor di più del racconto storico o dell’horror, altri due generi che ben si prestano alla creazione di mondi immaginari.

Ciò non toglie però che il meccanismo della transmedialità sia applicabile a qualsiasi genere, e anche al di fuori dell’entertainment e dell’ambito finzionale. Sono ormai molti i casi di non-fictional transmedia: documentari, inchieste giornalistiche, campagne di sensibilizzazione civica e sociale ecc. Io stesso, per esempio, ho realizzato, a fini di esercitazione didattica, con i miei studenti un piccolo progetto transmediale teso a promuovere l’attività di Medici senza frontiere, attraverso il racconto di alcuni immaginari ma realistici personaggi.

E' previsto per fine 2007 il lancio del nuovo canale tematico sul digitale terrestre Mediaset Premium. Torneranno vecchie glorie come "Buck Rogers"!
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Che cos’è, invece, l’archeologia transmediale? 

Jenkins aveva elaborato il concetto di transmedia storytelling partendo da alcune produzioni mediali uscite al volgere del secolo, come Matrix e The Blair Witch Project, sullo sfondo del processo di duplice convergenza tra i diversi media e le diverse industrie produttive che si stava manifestando in quegli anni. In realtà se consideriamo la transmedialità come un’esperienza offerta all’utente che si caratterizzata per l’espansione della narrazione attraverso media diversi, allora essa non è sicuramente un fenomeno recente. Ne parlavo in volumetto intitolato appunto Transmedia Archaeology, scritto qualche anno fa assieme a due importanti studiosi di transmedialità come Carlos Scolari e Matthew Freeman (e da poco tradotto in Italia da Armando Editore): fin dalle origini della moderna industria culturale, tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900, possiamo trovare prodotti le cui caratteristiche – mutatis mutandis – anticipavano sorprendentemente parecchie delle caratteristiche degli attuali franchise transmediali. Basti pensare a quante narrazioni destinate all’intrattenimento popolare venissero già negli anni ’20 e ’30 diffuse su media diversi (fumetti, riviste pulp, radio, serial cinematografici ecc.): eroi provenienti dai fumetti, come Flash Gordon o Superman, dai pulp magazine, come Buck Rogers o Tarzan, e persino degli sceneggiati radiofonici come The Shadow, migrano tutti, in maniere e forme diverse, da un media all’altro. Al centro c’era anche allora il passaggio di contenuti (personaggi, storie, mondi narrativi ecc.) da un

media all’altro, un passaggio che si esprimeva già non come semplice trasposizione, ma come espansione narrativa. Il problema è vedere come – e soprattutto fino a che punto – le strutture produttive, le formule narrative e le modalità espressive dei diversi formati mediali rendessero possibile allora la diffusione di materiali coordinati e non ridondanti attraverso i media, come vuole il modello di transmedialità proposto da Jenkins. In realtà quest’ultimo è solo uno dei diversi modelli attraverso i quali, nella storia dell’intrattenimento popolare, è avvenuta la circolazione tra i media dei contenuti narrativi, e forse per inquadrare meglio il fenomeno dovremmo pensare a una concezione più ampia e flessibile di transmedialità.

Le chiedo di svestire i suoi panni di docente universitario e di vestire quelli di appassionato: qual è l’universo fantascientifico transmediale che le piace di più e perché? 

Cosa assai facile, essendo un accanito lettore di fantascienza (e in misura minore di Fantasy) dall’età di otto anni. Anzi, il mio primo approccio alla transmedialità è avvenuto perché stavo scrivendo un libro su Conan il Barbaro e mi interessavo al modo in cui il personaggio creato da Howard si era trasformato nel passaggio da un media all’altro. E devo dire… il barbaro Cimmero mi è sempre stato nel cuore. Certo, è in modo assai parziale personaggio transmediale (possiamo comunque considerarlo un caso classico di Archeologia transmediale) e a ben pensarci non è nemmeno fantascientifico come vuole la domanda. Diciamo allora Star Wars: quando uscì il primo film ero un quindicenne snob che aveva conosciuto da poco la New Wave e autori come Lem, la LeGuin, Dick, Delany, e guardava dall’alto in basso certe infantili produzioni. Ma con il tempo le prospettive cambiano, e Star Wars è forse il più grande Universo immaginario della contemporaneità, nel bene e nel male. Certo però che l’ultima trilogia Disney l’ho davvero poco digerita! (Ma Rogue One è davvero molto bello).

Grande affluenza a Stranimondi 2016
Grande affluenza a Stranimondi 2016
Un altro elemento fondamentale della transmedialità è, per l’appunto, la partecipazione dell’appassionato. Ci spiega in che senso? 

Da sempre gli appassionati hanno scritto delle storie aventi come protagonisti i loro beniamini: pare che già a fine Ottocento circolassero delle fan fiction di Sherlock Holmes. Secondo Jenkins, che sottolinea fortemente l’aspetto partecipativo del racconto transmediale, le produzioni dei fan (racconti, immagini, video ecc.) costituiscono per lo studioso americano una componente fondamentale delle narrazioni transmediali, proprio perché, attraverso la creativa rielaborazione dei materiali messi a disposizione dall’industria dei media, espandono anch’esse l’universo narrativo non meno che le produzioni ufficiali, in una sorta di vera e propria co-creazione. Secondo Jenkins è la natura stessa dei testi transmediali, con le loro ambizioni enciclopediche, a generare lacune da colmare, introdurre dettagli da approfondire e suggerire possibili storie da sviluppare, in definitiva a indurre i fan a fare speculazioni su di esse e a “riempire i vuoti” lasciati dal materiale originale. Nel libro mi soffermo su alcune produzioni video legate all’universo di Star Trek, che approfondiscono situazioni ed episodi tralasciate nelle produzioni ufficiali, a volte mettendo addirittura in scena soggetti originali mai realizzati, ma le cosiddette fan fiction sono tantissime, e vanno da Harry Potter a Star Wars, da Doctor Who a Supernatural, solo per fare riferimento ai soggetti più ricorrenti. Per farsene un’idea basta dare uno sguardo a siti come fanfiction.org.

Nella pratica produttiva, il coinvolgimento attivo del pubblico è ormai diventato un elemento centrale già a livello di progettazione di qualsiasi creazione transmediale, che deve sempre più prevedere la presenza al suo interno di spazi e stimoli per le attività dei fan: tali attività sono assai efficaci per la promozione e la valorizzazione del prodotto e proprio per questo vengono stimolate, indirizzate e controllate, talvolta persino riutilizzate professionalmente, dalle case produttrici. Per le quest’ultime, infatti, il fandom è un mercato strategico: il fan è, infatti, un consumatore fidelizzato, che frequenta appassionatamente il mondo narrativo transmediale prediletto, acquista e colleziona gadget, oggetti di merchandise, libri, CD, DVD in edizioni limitata ecc. Il fan è però un target privilegiato anche per altri motivi: può essere un buon indicatore di tendenze, ad esempio, ma soprattutto è un perfetto brand ambassador, che diffonde entusiasticamente la notorietà del brand transmediale e accresce l’interesse verso di esso, partecipando attivamente (e per di più a costo zero) alla sua promozione attraverso i discorsi e la condivisione di materiali promozionali (anche autoprodotti) sui social media.