– Gli ha iniettato il paracetamolo? – chiese. L’infermiera si voltò verso di lui. – In questo momento – disse.

Il medico spostò lo sguardo sul giovane: nulla di nuovo, solo uno dei tanti sventurati che lui aveva visto ridotti in quello stato da quando era arrivato lì con la sua troupe di Emergency. Giovani che avevano avuto la sfortuna di sopravvivere allo tsunami per rimanere mutilati, soli e senza speranza per il loro avvenire.

Il ragazzo sdraiato sulla branda davanti a lui si era fatto un grossolano laccio emostatico alla parte monca e aveva camminato per chilometri prima di crollare a terra sfinito. Era l’istinto della sopravvivenza che gli aveva impedito di cedere, a dispetto di qualsiasi logica umana. Per lui sarebbe stato molto meglio morire sotto le macerie, invece aveva combattuto con tutte le sue forze per non soccombere. Ma la sua battaglia era appena iniziata, il difficile doveva ancora arrivare.

– Riprenderà conoscenza? – chiese l’infermiera.

Il dottor Fasil si strinse nelle spalle.

– Non lo so – rispose. – Ha perso molto sangue e il suo quadro clinico è abbastanza compromesso. Vedremo come reagirà alle sacche di plasma.

Così dicendo l’uomo lasciò la stanza, seguito dall’infermiera.

La loro presenza e i loro discorsi non erano stati nemmeno percepiti da Khalid, sprofondato in un sonno che non poteva essere violato da nessuno.

C’era solo una coscienza che riusciva a venire in contatto con lui, a penetrare nella barriera che si era creata tra il ragazzo e la realtà. Era languida, sofferente: tra poco avrebbe cessato di esistere. Ridotta a un grappolo di energia senziente, presto si sarebbe dissipata entropicamente, perdendo ogni traccia di coerenza.

Il Grande Hassan esisteva veramente, dunque.

Ora aveva le sembianze di una corrente parassita intrappolata nei cavi delle apparecchiature che tenevano Khalid in vita. Il resto era stato probabilmente maciullato dal terremoto: il residuo di corrente autocosciente che fluttuava nei conduttori elettrici era l’equivalente dei movimenti convulsi delle zampe di una gallina alla quale fosse stata appena mozzata la testa.

Il Grande Hassan non si esprimeva con parole, ma attraverso concetti incanalati verso la mente di Khalid, i quali divenivano subito conoscenza.

Khalid verosimilmente non aveva mai preso in mano un’arma più pericolosa di un coltello da cucina ed era pure moribondo, ma era l’unica speranza rimasta alla Jihad. Se Allah aveva deciso che il Grande Hassan dovesse morire nei pressi di quel ragazzo, doveva esserci un motivo. Forse nei suoi piani era proprio il fanciullo in bilico tra la vita e la morte a dover succedere al Grande Hassan.

I principali esponenti dell’Armata erano periti nella catastrofe: toccava a lui il compito di istruire la nuova guida sui piani e sui segreti del gruppo militare. Sarebbe stata la sua ultima azione a favore della Jihad.

Dal canto suo, Khalid era una persona pacifica. Forse non sarebbe sopravvissuto nemmeno alla notte seguente, e se anche se la fosse cavata non voleva assumere il comando dell’Armata. Voleva solo la quiete.

Cercò di tacitare quella fonte di informazioni indesiderate, ma era troppo debole e troppo impegnato a lottare contro la morte per poter opporre una valida resistenza.

Khalid venne messo a conoscenza di tutto, poi la corrente si estinse definitivamente.