Gli occhi di Orso brillarono in modo feroce e Max si sentì come una preda costretta in un angolo.- Come hai fatto a scoprirlo? – disse Max, abbassando gli occhi. La nausea ricominciava a farsi sentire.

- Non è stato difficile. La tua faccia è un po' diversa da quella del giovane Meridien che ti porti in giro codificata sul suo chip di identificazione. Ma non ti preoccupare, non sono affari miei, se monsieur Meridien decide di pagare la mazzetta per il mio cargo.

Era un ricatto bello e buono ma Max non era in condizioni di trattare.

- E va bene, Orso. Pagherò! Ma se prosciughi il conto di Meridien non pretendere che poi ti paghi il biglietto.

- Mi sembra ragionevole. – rispose Orso, sfoderando uno dei suoi sorrisi lupeschi. – Ma ora bando alle ciance: andiamo dal colonnello Garo a sdoganare il mio carico!

                                    * * *

Erano partiti ormai da tre giorni ed erano circa a metà del viaggio. All'inizio Orso era stato silenzioso e scontroso, ma con il passare del tempo e dopo alcune bottiglie di bourbon la sua lingua si era sciolta.

Hugh, così si chiamava Orso, aveva raccontato a Max di tutte le sue donne sparse per la galassia e delle sue epiche imprese di contrabbando tra Proxima e i pianeti extrasistema. Nel sentire quelle storie Max si era scoperto a provare invidia per il suo strano pilota: fare lo SpazioCargo doveva essere davvero una vita piena di emozioni.

- Allora, cosa trasportiamo di bello? Sigari cubani di contrabbando? – chiese Max in tono allegro. Ma a quella domanda gli occhi di Hugh si indurirono.

- Non sono affari che ti riguardano, Bob. Qui sei solo un passeggero, non te lo dimenticare.

Era incredibile: dopo tre giorni passati insieme in dieci metri cubi di spazio, Hugh non aveva ancora smesso di chiamarlo Bob. Non che Hugh lo facesse apposta: per lui il suo interlocutore era Bob, qualunque fosse il suo vero nome.

- Va bene! – esclamò Max. – Non ti incazzare che ti si arriccia tutto il pelo! Non me ne frega un bel niente del tuo carico, l'importante è che mi porti su Proxima.

In quel momento la nave fu scossa da un tremito preoccupante e le stelle inquadrate nel finestrino anteriore della cabina ritornarono al loro colore bianco latte, perdendo l'alone color arcobaleno caratteristico dell'ipervelocità.

- E adesso che diavolo…? – esclamò Hugh, alzandosi di scatto dalla sedia del pilota. Con un movimento fulmineo si gettò dentro la botola che portava al ponte inferiore, scivolando verso la sala motori. Max rimase al suo posto, mentre nel suo cervello, come un film dell'orrore, scorrevano tutte le peggiori ipotesi.

Si era rotto il motore.

Peggio, un asteroide aveva centrato il motore, bucando lo scafo.

Peggio ancora, il motore era esploso, sventrando la nave e mettendo fuori uso il sistema di comunicazione…

- Oh, accidenti! – esclamò Max tra sé. Era inutile starsene lì impalato a immaginare catastrofi: la cosa più saggia da fare era andare di sotto a dare una mano a Hugh.

Si infilò con cautela nella botola, scivolando lungo il palo d'acciaio che collegava i due ponti: la gravità artificiale non arrivava a un G, quindi muoversi a bordo era per lui una esperienza decisamente imprevedibile e nauseante.