Nove mesi di attesa per un telefilm come Lost sono davvero molti.  Dopo la splendida quarta stagione, che aveva lasciato con il fiato sospeso i fan della serie, le aspettative di ottenere risposte ai numerosi quesiti lasciati in sospeso erano pressanti, e come accade spesso in questi casi sono state parzialmente disilluse. 

Avevamo lasciato i nostri eroi alle prese con due linee temporali diverse e concatenate (la prima illustrava le capacità dell’isola di potersi spostare nello spazio e nel tempo e la seconda svelava il contenuto della fantomatica bara), e ci siamo ritrovati in un tourbillon di azione e salti narrativi e temporali degni di un triplo salto carpiato all’indietro, in grado di sbalordire ma allo stesso tempo smarrire lo spettatore. 

Col tempo Lost è divenuta una serie autoreferenziale, ed è proprio questo il suo problema.  Personalmente ho trovato numerose difficoltà a seguire e a tentare di comprendere gli accadimenti di questa premiere, nonostante abbia seguito con passione le avventure dei naufraghi più famosi del piccolo schermo fin dagli esordi, quindi posso immaginare l’oggettiva difficoltà di un telespettatore medio o comunque occasionale che tenti di inserirsi in questo contesto senza avere sottomano la guida galattica per naufraghi o un manuale di istruzioni per la visione di Lost.

I motivi di tutto questo enorme groviglio ricadono paradossalmente proprio nella splendida quarta stagione appena conclusa, e più precisamente nell’episodio The Constant, uno dei migliori di tutta la serie, ma che di fatto apre il vaso di Pandora dei viaggi nel tempo, che a livello narrativo per un telefilm seriale come Lost è un po’ come maneggiare dei candelotti di dinamite senza la minima precauzione. 

La conseguenza di questo atteggiamento autoreferenziale è il drastico calo di ascolti, Lost ha infatti perso quasi cinque milioni di telespettatori americani se confrontati alla premiere della stagione precedente, dimezzando così letteralmente l’audience rispetto all’esordio di quattro anni prima e trasformando in questo modo quello che era un vero fenomeno di massa in una serie culto destinata a un seguito sempre più appassionato, radicale, ma esiguo.

Lost infatti rischia progressivamente di scendere addirittura sotto la soglia psicologica dei dieci milioni di telespettatori, un risultato impensabile agli esordi quando negli USA incollava allo schermo oltre ventiquattro milioni di persone.  Gli autori non sembrano minimamente preoccupati di tutto questo, anzi in numerose occasioni il timoniere Damon Lindelof ha snobbato senza mezzi termini l’argomento.

Un atteggiamento autolesionista-Lynchiano che trovo francamente poco condivisibile in quanto non credo affatto che inintelligibilità ed elitarietà vadano necessariamente di pari passo con la qualità del prodotto. Un buon telefilm, a mio avviso, deve essere comunque in grado di rendersi accessibile e fruibile evitando di chiudersi in se stesso. 

La regia e il montaggio della doppia puntata in questione non aiutano certo a semplificare l’astrusità della sceneggiatura, che tra salti nelle linee temporali, miriadi di personaggi apparentemente sconnessi tra loro e azioni caotiche e frammentate danno quasi l’impressione che gli dei si siano divertiti a giocare a Shanghai, lanciando bastoncini per aria che si mischiano tutti tra loro.  Il risultato è un vero groviglio, un susseguirsi di eventi tra i quali è impossibile stabilire un nesso immediato e che probabilmente solo a posteriori possono acquisire un senso compiuto. Questo rappresenta un cappio al collo per il telespettatore che si ritrova a guardare un telefilm che lo relega a un ruolo di totale passività dove subisce lo svolgersi dell’azione il più delle volte senza comprenderne, se non vagamente, il significato.  L’augurio è quello che Lost, che per inciso è stata eletta dal nostro sito come migliore serie di fantascienza dell’anno passato, possa quanto prima ritrovare una propria dimensione ed equilibrio.