Jericho non è Undying. A parte il nome in calce di Clive Barker e la visuale in soggettiva, i due titoli hanno davvero poco in comune. Chi sperava di ritrovare in Jericho un videogame giocato essenzialmente sull’atmosfera, come Undying, deve invece accontentarsi di una più canonica svolta sul tema scenografico dell’azione. Meno avventura, insomma, e più sparatutto. Secondo quel leit motiv che vanta antesignani illustri anche al cinema, un esempio George A. Romero.

Stilisticamente, Jericho ricorda un po’ il suo La terra dei morti viventi, Blade II di Guillermo del Toro o Vampires di John Carpenter. Anche nel videogame firmato da Barker, prolifico scrittore dell’orrore e regista di Hellraiser, al centro delle vicende c’è una sorta di super squadra dei reparti speciali abbigliata con tute in pelle attillate. Si tratta del team Jericho, composto da sette esperti che non sono solo abili pistoleri. Ciascuno possiede infatti una facoltà particolare, che gli ha permesso di entrare nel Dipartimento di guerra occulta dell’esercito Usa.

Sebbene il gioco non indugi sulla descrizione dei protagonisti - preferendo l’intensità dei combattimenti -, la loro caratterizzazione rappresenta comunque un aspetto interessante della produzione. Sono tutti personalità problematiche.

Il sergente Wilhelmina Church è cresciuta in una setta cristiana del Tennessee. La famiglia credeva fosse in grado di compiere miracoli. Gli istruttori del governo le hanno insegnato a controllare la magia, ma i rituali restano dolorosi, perché serve che scriva i simboli arcani con il suo sangue. Frank Delgado, l’uomo arsenale del gruppo, ha stretto un patto con un antico spirito del fuoco, Ababanili. Ora quello spirito possiede il suo braccio destro, tramutato in un cannone incendiario le cui carni sono eternamente tormentate dalle fiamme.

Il caporale Simone Cole, un passato di autismo e frequentazioni precoci al Massachusetts Institute of Technology, è capace di alterare lo spazio e il tempo attraverso la cabala. È invece la telecinesi l’arte del tenente Abigail Black, un cecchino che dirige i suoi colpi con la forza del pensiero. Ottima cosa, non fosse per gli effetti collaterali dovuti allo sforzo, molto simili a quelli sperimentati dagli Scanners di Cronenberg.

Ci sono poi il capitano Xavier Jones, con il dono della preveggenza e della proiezione astrale; un prete, padre Paul Rawlings, che è un’enciclopedia ambulante sul paranormale; e il capo della compagnia, Devin Ross, guaritore degli altri, non di se stesso. Schiatta presto, ma torna subito in causa con un artificio narrativo, che è alla base delle logiche di squadra dello sparatutto, il quale costringe a passare continuamente da un personaggio all’altro, da un potere speciale all’altro, rianimando all’occorrenza i caduti.

L’obbiettivo è farsi largo tra i gironi infernali di Al-Khali, città dimenticata nel deserto mediorientale, dove si annidano le legioni del Firstborn, il primo tentativo abortito di creazione dell’uomo. Un cammino a ritroso in epoche diverse. Le guerre mondiali, le crociate, l’impero romano, i sumeri, fino all’origine di tutto, nel 4000 avanti Cristo. Proseguire il proprio viaggio significa immergersi in un mondo che a ogni tappa mostra segni più violenti della corruzione provocata dalla presenza del Firstborn, a cui i secoli hanno dato il tempo per plasmare le immagini cristallizzate delle antiche civiltà di Al-Khali con la sua follia.

È proprio questa follia, il cantico horror delle creature che popolano androni maledetti per il piacere blasfemo degli ancora più orribili lor signori (da sconfiggere nella classica alternanza di carne da macello e boss), l’elemento affascinante di un first person shooter dall’ambientazione curata, persino più di quanto non voglia far vedere, ma anche sofferente per uno sviluppo dell’azione ripetitivo e non così ispirato, mentre l’incubo, figlio delle malate fantasie di Barker, rimane sfocato sullo sfondo.