Lost: quando la domanda è più importante della risposta.

Per sei anni abbiamo atteso questo momento, e qualunque possa essere l’opinione riguardo alla conclusione di questa serie è innegabile che si sia trattato di un evento mediatico di livello planetario unico nel suo genere.

Per la prima volta infatti numerosi paesi, compreso il nostro, hanno potuto assistere alla diretta televisiva di questo telefilm, e questo la dice lunga su ciò che ha rappresentato Lost negli ultimi sei anni per il piccolo schermo e non. 

Esistono due modi per analizzare Lost, legati a due distinte tipologie di spettatore, che partendo da un’identica base legata all’interesse sviluppato dai molteplici misteri della serie nel primo caso è motivato da una forte aspettativa legata alle risposte, nel secondo caso invece l’interesse trae nutrimento dalla domanda stessa. 

È palese quindi che nel primo caso ci si trovi di fronte a un’enorme schiera di persone che si sentono deluse se non addirittura prese in giro, mentre per gli altri questo finale rappresenta un giusto compimento per uno straordinario viaggio. È un po’ come andare in vacanza, c’è chi prende l’aereo perché l’obbiettivo e il senso della vacanza risiedono nella meta, c’è chi invece nel divenire del viaggio vede la parte integrante se non fondamentale della vacanza.

Personalmente credo di appartenere a quest’ultima schiera di persone.  Nel corso degli ultimi venti anni ho nutrito un amore sconfinato per la serie di David Lynch, Twin Peaks.  Per anni ho sognato e sperato nell’avvento di un degno successore. Bene, ce l’avevo davanti e non me ne ero reso conto. Benché Twin Peaks apparentemente sia un prodotto per certi versi quasi agli antipodi di Lost, a mio avviso è il serial che gli è più affine come essenza.  Entrambe le serie infatti hanno privilegiato l’importanza del porsi il quesito piuttosto che averne una risposta. 

Entrambe le serie hanno avuto un enorme successo di pubblico ed entrambe sono state pesantemente criticate per quanto detto in precedenza, salvo generare a loro volta una schiera di fan accanitissimi che sono stati in grado di penetrare l’essenza del messaggio.

Un altro parallelo interessante può essere fatto con il Riverworld di Philip José Farmer, dal quale sono stati tratti sicuramente alcuni elementi.

Adoro questo finale, perché è uno schiaffo al telespettatore medio, adoro questo finale perché è la rivincita della sceneggiatura creativa e immaginifica, adoro questo finale perché è coerente con l’essenza di Lost, che è rappresentata dal divenire. 

In questo senso Lost è una serie buddista (e non solo perché c’è la Dharma!), ma perché come il buddismo è incentrata sulla percezione della realtà, una realtà che è in continuo cambiamento, impermanente.  Con questa chiave di lettura si può comprendere e apprezzare il mutamento assistito nel corso di questi anni da parte dei personaggi e la perfetta irrilevanza delle loro azioni.

Capisco che la mia posizione possa essere considerata un po’ snobistica, ma sinceramente sentirò la mancanza di una serie in aperto contrasto con l’illuminismo e la linearità alla quale le serie tv ci hanno sin troppo abituato.

Ma qualsiasi sia la propria posizione, è la fine di un’importante epoca televisiva.  Torniamo alle nostre vite e aspettiamo la prossima era. The End.