Allora, cominciamo subito con la domanda cruciale: ma è proprio vero che Robot chiuse in seguito alle polemiche politiche portate sulla rivista dalla rubrica di Remo Guerrini?

Io non l'ho mai pensato. E nemmeno l'editore, Giovanni Armenia, tant'è che qualche anno fa, quando gli telefonai per chiacchierare di quel periodo e chiedergli alcuni dati (stavo scrivendo la mia autobiografia per Retrofuturo), scopersi che lui nemmeno ricordava quelle polemiche. Dal che si deduce l'importanza che deve avere loro attribuito. Se è stata la politica a uccidere Robot, qualcuno mi spieghi cosa ha ucciso, e dopo vite talora anche molto più brevi, Gamma, le varie incarnazioni della Asimov's Magazine, Aliens, e tutte le altre (rare) vere riviste di sf che abbiamo avuto in Italia. Basta guardare la storia del nostro mercato e si scopre che le uniche pubblicazioni che abbiano avuto una vita lunga sono i periodici che ospitano romanzi, magari condendoli con un pizzico di benemerita appendice informativa (Urania, Galassia, Cosmo Ponzoni, eccetera). La verità, per me, è che il nucleo di lettori disposti a pagare regolarmente per avere racconti e articoli ha una consistenza troppo esigua per portare anche solo in pareggio una rivista di sf, a fronte della necessità di coprire le svariate decine di migliaia di edicole che abbiamo in Italia. Secondo me si tratta al massimo di due o tremila persone, e come fai a raggiungerle tirando poniamo cinquemila copie? E' impossibile

Infatti, l'unico che ci riesca da tanto tempo è Ugo Malaguti con Nova SF*, venduta per corrispondenza a un pubblico estremamente mirato (ma già Futuro Europa, a quanto mi risulta, ha i suoi problemi). Le vendite iniziali possono illudere, portare a ben sperare, come accadde con Robot; poi passa il tempo e i lettori meno interessati, che sono la grande maggioranza, si stufano e smettono di comperare. La politica non c'entra niente.

D'altra parte, non è possibile che il clima scaturito da questa situazione abbia un po' spento quell'entusiasmo necessario per fare una rivista vivace come era Robot?

Spento l'entusiasmo in chi, scusa? Nei collaboratori no di certo, come credo si possa vedere benissimo sfogliando la rivista: il mio problema era arginare le offerte di collaborazione, non certo andarle a sollecitare. D'altro canto, il famoso articolo di Remo uscì sul numero 12, e la rivista proseguì fino al numero 40, più gli Speciali, sicché... Anzi, Robot divenne un centro d'aggregazione per una certa parte della cultura di sinistra (questo è ovvio), facendo ad esempio uscire allo scoperto il collettivo di Un'Ambigua Utopia, ricevendo le attenzioni della stampa, diventando un fenomeno che per una volta andava al di là della pura e semplice fantascienza come letteratura d'intrattenimento. A me pare che l'entusiasmo sia aumentato, non diminuito. Senza purtroppo portare a quella base fissa di pubblico, i mitici diecimila lettori che voleva Armenia, che sarebbe stata indispensabile. Può darsi, anzi sarà senz'altro vero che una certa quantità di lettori con idee politiche diverse dalle nostre abbia smesso di comperarci, ma se le defezioni fossero state solo quelle, Robot sarebbe ancora in edicola. Ah, che bel sogno!

Gli anni settanta... allora in Italia la politica si respirava nell'aria, era qualcosa in cui si viveva tutti i giorni, con conflitti sociali molto accesi. Credo che tu in particolare la vivessi come un aspetto importante della tua vita, è vero?

Fondamentale. Penso si veda molto bene nei racconti che ho scritto in quegli anni, negli editoriali, in Le frontiere dell'ignoto. Non per dire, ma io sono entrato all'università nell'autunno del 1968, e si trattava della Statale di Milano, forse il massimo epicentro del movimento sessantottino, col compagno Mario Capanna profugo dalla Cattolica... Anche se la politica come la vivevo allora avevo cominciato ad assorbirla a livello cellulare da anni, soprattutto con le canzoni del mio grande amore Bob Dylan, e non suoni ridicolo perché non lo è. Noi volevamo, speravamo di cambiare il mondo. Era questa la nostra politica. Abbiamo puntato molto in alto e il mazziere ci ha soffiato il piatto: non sei tu che cambi il mondo, è il mondo che cambia te. A volte con la violenza, ma più spesso con la finta bonarietà dei muri di gomma, con le carezze che nascondono il pugno. Con le necessità alle quali ti devi adeguare se no crepi. Eccetera. C'è il titolo di un racconto di Brian Aldiss, che guarda caso pubblicai su Robot, a riassumere splendidamente tutto questo: l'imbroglio morbido. Ci siamo dentro e ce lo teniamo. Ci vorrà ben altro che il 68 per cambiare il mondo. Che è sì cambiato, ma come ha voluto il potere, non come abbiamo voluto noi. Ahimè.