Huey fissò la propria immagine allo specchio. Gli restituì lo sguardo il volto di Max Grünenberg. Non c'erano dubbi. Osservò il modo in cui gli zigomi tendevano la pelle delle gote, le zone in cui la barba si diradava, la piega appena accennata sulla punta del naso. Ogni dettaglio corrispondeva. Rimase affascinato a contemplarsi, incapace di distogliere gli occhi, nonostante quella fosse la faccia che vedeva riflessa ogni mattina. Ma oggi era diverso. Non era più la faccia di Huey, era quella di Max.

Quando aveva capito come stavano le cose? Huey pensava di averlo sempre saputo, in un certo senso. Ricordava, da bambino, le lunghe ore passate davanti a un altro specchio, a chiedersi perché, se sua madre era evidentemente cinese, lui non presentava alcuno dei tratti caratteristici di quella razza. Lei non aveva mai chiarito i suoi dubbi, limitandosi a rispondergli con mezze frasi che non spiegavano nulla, in quel suo modo gentile ma accondiscendente, come se non le importasse che lui le credesse o meno. Poi un giorno arrivò la lettera. Suo madre lo guardò senza parlare, e in quello sguardo indecifrabile Huey percepì che un destino più grande di lui stava per piombargli addosso.

La lontana scuola dove lo rinchiusero era lussuosa, ma al tempo stesso fredda e impersonale. Insegnanti, inservienti, persino gli altri allievi lo trattavano con cortese distacco. Il primo giorno, il direttore in persona venne a fargli visita in camera, rigido e impacciato come se non fosse stato un allievo qualsiasi quello che aveva di fronte. Gli disse che suo padre lo aveva voluto in quella scuola, e si aspettava che lui avrebbe rispettato la sua decisione, comportandosi bene e impegnandosi fino al termine degli studi. Dopodiché girò sui tacchi e se ne andò.

Suo padre! La rivelazione lasciò il piccolo Huey assolutamente frastornato. Le sue ripetute interrogazioni non gli avevano portato altro che il sorriso stanco della madre, che ripeteva senza nessuna convinzione che suo padre era lontano, e che nessuno sapeva quando sarebbe tornato. Ora quell'uomo si faceva vivo, senza farsi vedere ma sconvolgendo la sua esistenza. Due impulsi ugualmente potenti, uno di sottomissione, l'altro di ribellione, lottarono prepotentemente in lui. Per un intero giorno rimase chiuso nella stanza, trattenendo le lacrime, interrogando lo specchio. Alla fine, prevalse la gratitudine per quell'implicita promessa di una spiegazione, sia pure differita. Suo padre si occupava di lui, aveva un progetto per lui. Huey non l'avrebbe deluso, avrebbe fatto qualunque cosa per rispettare la sua volontà.

Gli anni della scuola lasciarono in Huey solo un ricordo confuso. Una successione incessante di materie, esami, professori, compagni perennemente distanti, come se qualcosa in lui gli impedisse di socializzare come avrebbe desiderato. Vacanze passate da recluso, insieme a quei pochi che non raggiungevano i genitori, baloccandosi con una scacchiera o un videogioco nella sala comune. Sua madre che gli mandava messaggi sempre più rari e sempre più scialbi, al punto da fargli venire il dubbio che non fosse nemmeno lei a scriverli. Il tutto immerso nell'immobilità di un clima tropicale, che non gli permetteva nemmeno di accorgersi dello scorrere del tempo. Viveva in apnea, immerso nel vuoto, abbarbicato alla convinzione che tutto questo doveva avere un senso, che suo padre non lo avrebbe messo lì se non per uno scopo che prima o poi gli sarebbe stato rivelato.