A sedici anni dall’uscita di Akira, il primo anime giapponese largamente distribuito nel circuito cinematografico internazionale, undici anni dopo il trittico di Memories, ecco tornare Katsuhiro Otomo, una autentica leggenda nel mondo dell’animazione. Visti i numeri, il suo non poteva che essere un ritorno in gran stile. Se Akira aveva esaltato l’estetica cyberpunk del suo creatore, Steamboy segna un superamento dell’ormai mitico precursore e si inserisce in una tradizione altrettanto nobile ma forse cinematograficamente meno sfruttata: lo steampunk, irriverente miscela di critica sociale e divertissment che trasfigura il positivismo dell’epoca vittoriana in una raffinata sintesi di cyberpunk e storia alternativa. Nel mondo della narrativa lo steampunk ha raggiunto il suo apice nella Macchina della Realtà di William Gibson e Bruce Sterling (Mondadori) e nella trilogia Steampunk di Paul Di Filippo (Editrice Nord), due raffinate incursioni di alcune illustri personalità della fantascienza contemporanea in un Ottocento di pura invenzione, in cui una provvidenziale combinazione della tecnologia del vapore con le scienze informatiche ha permesso di anticipare la rivoluzione elettronica di circa un secolo. Lo scenario urbano è dunque dominato da macchine mirabolanti e strutture meravigliose, ma dietro la facciata di questo progresso illuminato si nascondono trame occulte che non di rado sconfinano nel sovrannaturale. Un po’ più prosaico, a dire il vero, è il primo e finora unico esemplare cinematografico del filone, quel Wild Wild West di Barry Sonnenfeld che riprendeva in chiave ironica le avventure televisive di un agente federale e di uno strambo inventore su e giù per il Far West. Il risultato, per quanto divertente, non fu tale da inaugurare un sottogenere, come invece era successo quindici anni prima per Blade Runner, vera pietra miliare del cinema moderno. A colmare la lacuna giunge ora Steamboy che, non temiamo smentite, da adesso in poi cambierà definitivamente il cinema d’animazione. Il suo creatore ha speso dieci anni per realizzare questa epica vittoriana
Intervista a Katsuhiro Otomo, a cura di Marco Spagnoli
Autore di culto grazie al manga Akira, Otomo Katsuhiro torna alla regia
Akira è un film di culto. Cosa è cambiato per lei tornando alla regia?
Io non sono cambiato in nulla. Sono felice che quel film abbia avuto tanto successo anche se, riguardandolo oggi, scopro un sacco di imperfezioni e di difetti. Nel mio lavoro posso dire, però, che il mio approccio creativo non è cambiato.
In Steamboy c’è un lavoro fatto sia di tecnologia tradizionale che in digitale…
Esattamente. Alcune parti sono state realizzate con la tecnica usata normalmente e altre direttamente in digitale. La parte più complessa è stata quella di armonizzare tutti questi elementi, dando più spazio, ovviamente, a quelli fatti a mano. Ci sono delle scene dove il marchio del digitale è evidente. Io, però, ho voluto filtrarli ulteriormente e renderli più omogenei con il resto del film.
Conosce qualcosa del fumetto europeo?
No, sinceramente no. Almeno non in generale. Ho seguito – in passato – per qualche tempo l’animazione francese.
Il suo stile originale è sempre piaciuto molto in Europa. Forse, perfino, più che in Giappone. Sarebbe sorpreso se Steamboy avesse più successo qui che in patria?
Non credo sarebbe una sorpresa, perché Steamboy ha uno stile più europeo che nipponico. E’ stato un film difficile. L’idea alla sua base era diversa da quello che mi chiedevano di fare, ovvero, ripercorrere la strada di Akira. Io, però, ho fortemente voluto seguire un’altra storia che mi interessava di più, perché particolarmente adatta all’epoca in cui viviamo.
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