– All’improvviso ho capito tutto.

– Tutto di che?

– Della vita.

– Sei un idiota!

– E tu, se continui a non ascoltare, resterai un fallito.

– Oh, il povero idiota, capace solo di pisciarsi nei pantaloni e di parlarsi addosso.

– Forse, questa mattina non ti sei ancora guardato allo specchio.

– Come se ci fosse uno specchio in quest’hotel.

Un dialogo senza senso, il risveglio di due barboni che convivono abbaraccati sotto le arcate di un decrepito ponte.

E io li, fermo in mezzo ad un canneto nel letto del fosso, ad ascoltare invece che a mettermi in salvo dall’onda di piena che avanza inesorabile.

Tutto è iniziato con un lampo ed un tuono, meno di otto ore fa.

– Piove.

– Già.

– Peggio di così…

– Non lo dire a me: odio questi servizi.

– Si, non c’è niente di peggio.

– Chiudi bene quella busta.

– Dio, che fetore.

– È un gatto morto, che ti aspettavi.

– Non è per raccogliere carogne spiaccicate sulle strisce pedonali che mi sono offerto volontario.

– Oh, sentiamo e che cosa pensavi di fare: salvare giovani turiste straniere da un hotel in fiamme?

– Si. No. Voglio dire si e no.

– Vabbè mentre ti decidi carica questa fetenzia nel retro del fuoristrada che riportiamo il “cadavere all’obitorio”.

I due volontari risalgono sul pick–up con le insegne della Protezione Civile e ripartono, sgommando e a sirena spiegata, in barba ad ogni regolamento.

Il cielo è grigio topo e la pioggia s’è fatta scroscio.

Adesso il riflesso dei lampeggianti illumina un cassonetto dell’immondizia.

– Ecco, riposa in pace nel tuo paradiso.

– Sbrigati, non vorrei che qualcuno ci vedesse.

– Con questo tempaccio?

– Ma proprio dietro al ristorante lo dovevamo gettare sto’ gatto morto?

– Certo, così la puzza si confonde con quella degli scarti di pesce. E poi, cosa potrebbe desiderare mai un gatto se non di finire la sua vita tra teste di scorfano e lische odorose? Io, per esempio, vorrei morire tra due grandi tette: pensa che roba!

– Penso solo che è ora di tornare a casa: è tardi, sta diluviando e sono stanco delle tue cazzate.

Notte, il pavimento dei due container affiancati che costituiscono il Centro Operativo della Protezione Civile Comunale è allagato da mille rivoli di pioggia: non c’è silicone sigillante che tenga e fogli di giornale inzuppati e segatura sparsa contribuiscono alla sensazione di provvisorietà.

Tutti i volontari sono stati richiamati, qualcuno è arrivato ancora con il pigiama sotto l’impermeabile.

– I fossi vanno presidiati in attesa della piena prevista per le otto di domani mattina. Dobbiamo prepararci a chiudere i ponti stradali, accertarci che nessuno scenda lungo le rive e, dove possibile, rimuovere detriti, tronchi e immondizia che possono costituire ostruzioni. Signori, sapete cosa fare.

– Armiamoci e partite. La fa facile “il capo”.

– Ma sta zitto e passami gli stivali di gomma.

La notte passa nell’attesa. Lascia dietro sé un retrogusto di caffè da troppo tempo nel thermos, di sudore sotto la mantellina incerata, di torce elettriche con la batteria ormai scarica, di pioggia battente sul tettuccio e di vetri dell’auto appannati dalla condensa.

All’improvviso la radio riprende a gracchiare: – Avete controllato il ponte abbandonato?

Ci guardiamo in volto: uscire sotto la pioggia e scendere nel fango del fosso?

Però è vero, sotto i resti del ponte medievale, ogni tanto ci dormono zingari e barboni.

Un rudere di mattoni rossi, le due arcate centrali ancora integre ospitano baracche di legno e nylon, il resto del ponte è stato portato via da antiche piene. Qualcuno a scritto sul pilone, con la vernice bianca, a caratteri grandi, irregolari “Topo Grand Hotel”.

– Testa o croce?

– ?

– Per chi va a svegliare le bionde turiste.

Neanche a dirlo, tocca a me.

Il letto del fosso è ricoperto da una foresta inestricabile di canne.

Alte almeno tre metri, forse riusciranno a rallentare la piena; non lo so per certo così avanzo a fatica, con prudenza.

Ad un tratto, attraverso il velo della pioggia, sento delle voci.

Mi blocco, senza sapere cosa fare: è molto più semplice immaginarsi intento al salvataggio di bionde turiste – che ti saranno poi riconoscenti – che non avere a che fare con emarginati, pazzi e “diosacosaltro”.

Così mi limito ad ascoltare queste voci incorporee.

– … E cosa avresti capito della vita?

– Pensaci bene. Siamo qui, sotto un ponte che non collega nessuna strada, isolato dal resto del mondo da un mare di erbacce così fitte che nessuno ci vede.

– Meglio così. Mi è passata la voglia di avere rapporti “umani”.

– Ma sai perché siamo veramente qui, su questo pianeta remoto?

– Perché siamo dei disgraziati?

– No, è una prova. Un atto di fede.

– Bah, hai bevuto troppo.

– No, e te lo dimostrerò: sono sicuro che sta per arrivare un messaggero che ci salverà.

Vedo il livello dell’acqua nel fosso che sale rapidamente. Devo fare qualcosa. Decidere se irrompere al Topo Grand Hotel e salvare i suoi ospiti, rischiando così la mia vita o, più semplicemente, scappare via dimenticando di avere mai ascoltato quelle voci.

Buffo, è proprio in momenti come questo che ti tornano alle mente le idee più strane: ripenso al povero gatto morto che ho grattato dall’asfalto (appena?) ieri e al paradiso che lo attendeva.

E so cosa devo fare.