Dario Tonani appartiene a quella schiera di autori che ha cominciato a scrivere tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, ma è tra quei pochi che sono in attività ancora oggi, che non si sono arresi anche quando il mercato letterario fantastico non offriva quasi nessuna possibilità di pubblicazione.

Dopo essersi laureato in Economia Politica all'Università Bocconi, Tonani è diventato giornalista professionista e lavora in un grande gruppo editoriale.

Il suo esordio è avvenuto nel 1979, a soli vent’anni, con il racconto Soldato Jordan, pubblicato in appendice al romanzo L'antimondo di Vega, di Dan Dastier (Editrice il Picchio, Milano 1979).

Da quel momento, Tonani è arrivato a pubblicare oltre una quarantina di racconti (apparsi in antologie e sulle più importanti riviste) in una carriera costellata anche da molti premi, tra cui il Premio Tolkien nel 1989, due volte il Premio Lovecraft (1994 e 1999) e tre volte il Premio Italia (1989, 1992 e 2000.

Nel 2007 è uscito su Urania il suo romanzo Infect@, un noir fantascientifico giunto in finale all’edizione 2005 dell’omonimo premio, in cui ipotizza l’avvento nella Milano del 2025 di una nuova droga da assumersi per via retinica attraverso speciali cartoni animati “dopati”, in grado di interagire con l’ambiente circostante.

A marzo 2009, sempre su Urania usciranno due suoi romanzi brevi, raccolti sotto il titolo L’algoritmo bianco.

A Dario Tonani abbiamo chiesto di parlarci, per la nostra rubrica su come scrivere fantascienza, di come vanno usate le parole, ci come non abusarne e di come sia a volte necessario e opportuno inventare qualche neologismo.

Colori su una tavolozza

La tavolozza è rettangolare, la misuro: più o meno 33 x 27 centimetri. Suddivisa in 88 minuscole “cellule”, tutte quante nere. Non è un problema, la loro combinazione è comunque in grado di replicare qualsiasi colore, e all’occorrenza di crearne di nuovi. A patto, però, che non vada via la corrente o che le batterie non smettano di funzionare...La tastiera è lì e aspetta.Sapere che cosa “dipingere”, insomma avere le idee da fissare da qualche parte nella memoria di un computer è, però, tutt’altra cosa. Le hai o non le hai. I colori no, ci sono, basta scegliere quelli giusti. E, ovviamente, farne buon uso.Questa premessa-metafora per dire che pennello e vernice presi singolarmente non servono a nulla. Hanno bisogno l’uno dell’altro. Le idee e le parole, appunto.

La fantascienza, più ancora di altri generi letterari, ha una sete inestinguibile di parole: occorrono per dipingere ambienti che non esistono - e non esisterebbero mai - se qualcuno non si sforzasse di delinearli ex novo, da zero. Una storia di fantascienza equivale quasi sempre a una prima volta: l’autore vede e deve cercare di comunicare al lettore che cosa, come, di che colore (e, ovviamente, quando)... Dipingere appunto, con le parole, qualcosa di cui mai il lettore ha avuto esperienza diretta o indiretta. Forse anche per questo la SF è tra i generi quello che fa più ampio ricorso a parole nuove, inventate di sana pianta: è un modo molto efficace di stringere una sorta di patto tra autore e lettore: “Questo non c’era, l’ho inventato io: ti spiace se d’ora in poi lo chiamiamo così?”.

La storia della fantascienza è un autentico tripudio di neologismi. Ogni scrittore nutre in sé il sogno megalomane di regalare al vocabolario almeno una parolina inventata. Pochi però hanno visto i loro neologismi diventare immortali, al punto da essere adottati dal linguaggio corrente. I primi che mi vengono in mente: robot, alieno, cyberspazio, teletrasporto, droide, terraforming, kipple… Ma ce ne sono a bizzeffe, basta solo fare mente locale per trovarli. Alcuni vengono superati dal corso della storia e dal progredire di scienza e tecnologia, altri fanno moda e tendenza per una breve stagione, qualcuno finisce sullo Zingarelli, altri ancora - i più imperituri - creano essi stessi l’idea di un domani, non importa se verosimile o meno...