All’improvviso lo sento. Un impulso, profondo e potente. Parte da dentro, dalla batteria principale. Si espande, pervade tutti i circuiti, li accende, gli infonde vita. È una energia inarrestabile. Nei miei occhi scorrono fiumi di linee di codice, di sequenze gialle e rosse che s’aggrovigliano, si concentrano, si fondono. E il mio corpo autonomamente si muove, le gambe si spostano, le braccia si alzano, le mani si aprono. Ho un unico obiettivo (desiderio): fermare (uccidere) il mio principale.Lo agguanto per le spalle, un attimo prima che il braccio si abbatta violento sul corpo inerme di Natasha, e lo tiro indietro. Un lembo della pretenziosa giacca nera mi rimane tra le dita.– Che cazzo stai facendo culo di latta?

Il mio principale mi guarda confuso. Non comprende. Non comprendo neanche io. Ho la vaga percezione di stare violando i protocolli di protezione. Negli occhi continuano a brillare codici di errore. Qualcosa mi impone di ignorarli.

– Codice di sicurezza 9-9-9: disattivare. Disattivare! – sbraita sputando saliva.

Il codice di arresto non funziona. Non parte nessuna procedura di blocco. Reggo la sua testa tra le mani. Con una smorfia, mi infila il laser nel braccio. Sento i filamenti fondersi e vedo nuovi messaggi guizzarmi nel visore. Io continuo a stringere fino a quando i bulbi oculari non schizzano fuori dalle orbite.

Ora sono arrivati anche i fratelli Wachowski. Sì, decisamente è un lavoro pesante per me oggi. I due fratelloni mi tagliuzzano la schiena con i loro lunghi coltelli alzando scintille e facendo colare liquido verdastro. Righe d’allarme balenano negli occhi. Le tralascio. Mi volto e dò un calcio a quello di destra frantumandogli il ginocchio. Prima che s’accasci gli infilo il braccio nello stomaco molle. Il secondo mi pianta la lama nella gola ma non riesce a girarla. Gli afferro la testa con entrambe le mani e la torco più forte che posso. Sono furioso. Il piccoletto sta immobile sulla soglia. Suda e mi osserva terrorizzato. Prende una pistola e spara due colpi. Brillano nuovi segnali di pericolo ma io non mi fermo. Gli agguanto il braccio e premo. La pistola cade. Le ossa si spezzano. Lo smilzo grida.

Ho finito. Sono… soddisfatto? Osservo Natasha. Non strilla più. È distesa sul letto e mi guarda con occhi vacui. L’accarezzo. Mi dice che costa cinquanta crediti all’ora. Non capisco. Poi sento un rumore di passi che s’avvicinano. E una voce che scandisce un comando.

– Codice: Black Jack. Mission: End.

Per tutta risposta, il mio corpo s’accascia. I circuiti si spengono. Le subroutine si terminano e tutto diventa improvvisamente buio. Solo l’unità logica, dotata di una minuscola batteria supplementare, mantiene un briciolo di attività. Lancio comandi e cerco di riattivare i miei sistemi periferici, inutilmente. Le mie istruzioni si perdono nel vuoto delle fibre ottiche. Non raggiungono le mie terminazioni. Cerco di eseguire la procedura di restart integrale ma le batterie non sviluppano l’energia necessaria. Non riesco nemmeno ad inviare il segnale radio di richiesta di soccorso. Riprovo la sequenza di avvio, in un loop infinito. La procedura non fa altro che generare messaggi di errore che s’accodano uno dietro l’altro. Poi qualcosa si concretizza nel mio potente processore. Un’istruzione? Un codice? Una stringa? È qualcosa di totalmente nuovo. Possibile? Una sensazione. Possibile? Un senso di impotenza. Possibile? Un senso di… paura. Possibile? Errori di sintassi compaiono nello stack di memoria. Ma la sensazione resta e si gonfia. Si fa più pressante. Paura. Paura di che? Di non essere più. Di non essere più. Di non essere più. Vorrei gridare, ma il chip vocale non ha energia. Sono muto, con questa sensazione di paura che mi cresce dentro. Accelero la sequenza d’avvio. I messaggi d’errore riempiono il buffer generando ulteriori codici d’errore. Sento i microcircuiti dell’unità logica sfrigolare. Mi sto fondendo il cervello, letteralmente. Posso solo isolare il co-processore matematico e mantenere aperto il canale audio d’ingresso per registrare quanto avviene intorno.