Come dicevo, il mio principale veste in due sole tonalità: bianco o nero. Bianco vuol dire “Tutto ok; nessun problema”. Nero significa “Grosse rogne”. Le rogne, per quanto ovvio, le porto io. E oggi il mio principale è di un nero più nero del buco nero di Cygnus X-1. Credo che mi toccherà lavorare pesante. Non che il termine pesante abbia un qualche significato pratico per me. Almeno, non dovrebbe. In ogni caso, buttare giù una porta di metallo da novecento chili rientra tra i lavori pesanti.La lastra scricchiola e vacilla sotto le mie mani possenti. Non credo che resisterà a lungo. Piuttosto, l’allarme si metterà a suonare a tutto spiano. Sarebbe bastato suonare ma non è affar mio. Il principale ama le entrate ad effetto e mi ha ordinato di buttar giù la porta. E io la butto giù: ordini chiari, logici e possibili. Aumento la pressione. Sento nelle braccia i fili che pulsano, i microingranaggi che si muovono, le fibre che si tendono e spingono. Così le sbarre si piegano e le cerniere si spaccano. La porta cade con uno schianto in un’angusta saletta travolgendo l’esile corpo di un portinaio. Nello stesso istante la sirena si mette a ululare. Ma è questione di un attimo. Una volta dentro, assesto un pugno alla centralina e l’allarme smette ingoiando un ultimo singhiozzo strozzato.

L’anticamera è stretta e spoglia. Le pareti sono mangiate dalla muffa. Un piccolo termosifone gocciola acqua rugginosa che si mescola al sangue dell’uomo schiacciato dalla lastra. Il chip olfattivo rileva un lezzo nauseante. Il mio principale storce il naso e scatarra per terra. Dall’interno, rumori e grida scomposte. Qualcuno strilla di rimanere nelle stanze. Uno scalpiccio preannuncia l’arrivo di due grossi tizi seguiti da un ometto smilzo e sgraziato. I due tipi hanno la barba folta e i capelli nascosti da una bandana. Al naso portano un grosso anello. Le braccia muscolose sono ricoperte da lunghi tatuaggi. Le mani indossano guanti di cuoio da cui spuntano punte di ferro all’altezza delle nocche. Stringono lunghi coltellacci e sotto le ascelle si intravedono due pistole di grosso calibro. Sono i fratelli Wachowski. Anche loro fanno parte del lavoro pesante.

– Cazzo Black Jack, hai ucciso il vecchio Tchan! – L’ometto smilzo guarda incredulo la macchia sotto la porta.

– Levati dalle palle, Ratty. È una questione privata.

– Certo, certo. Ragazzi è tutto a posto. Povero Tchan. Per favore non fare come l’ultima volta, che c’è voluta una settimana per ripulire tutto.

– Le-va-ti dal-le pal-le. – Il mio principale ci sa fare quando serve. Carisma, ci vuole. Dondola la testa come se si fosse appena fatto una dose di quella pesante; poi si rivolge a me: – Muovi le chiappe, culo di latta.

Ci muoviamo, superando i due grassoni ringhianti come cani da guardia. Il tipo viscido abbassa lo sguardo. Sa chi siamo e ha paura. Un paio di ragazze seminude seguite da clienti in mutande si affacciano sul corridoio. Vedendoci, s’affrettano a rientrare nelle camere. Il cunicolo è lungo, illuminato da flebili neon rossi. Ai lati, in piccole nicchie, ologrammi colorati riproducono scene di sesso. I nostri passi coprono il ronzio agonizzante dei condizionatori. Il fetore aumenta man mano che avanziamo. Dalle porte socchiuse ci spiano occhi intimoriti. Si sentono sussurri e sospiri al nostro passaggio. Alla fine del corridoio giriamo a sinistra. Rimangono ancora quattro stanze. L’ultima a destra è il nostro obiettivo. Sull’ingresso lampeggia la scritta “work in progress” e il timer segna ancora undici minuti e una manciata di secondi. Non si sfonda niente, questa volta. Premo un comando e la porta si apre con uno sbuffo. Una luce soffusa ci accoglie nello stanzino. Sulla parete opposta un olofilm dovrebbe favorire l’ispirazione. Di lato, in un letto sudicio, un uomo s’avvinghia a qualcosa mugolando e arrancando. Quando s’accorge di noi, si volta irritato.

– Ma che diavolo. Ehi! Ho pagato per un’ora. Aspettate il vostro turno.

– Levati dalle palle. – Il mio principale risulta un po’ monotono col suo slang fuori moda ma sa essere molto convincente. L’uomo è un po’ titubante. Vorrebbe ribattere. Guarda me, poi di nuovo il mio principale. Lo riconosce. Raccatta le poche cose che ha e se ne va bofonchiando qualcosa sul rimborso del prezzo. E allora la vedo. E la riconosco: Natasha.