La donna si voltò verso di me, fissandomi con durezza, accusandomi apertamente di averla guardata e desiderata. Non mosse lo sguardo neppure al crescere di intensità delle esplosioni e del mutilato mormorio di stupore della folla. Mi staccai dal muro lentamente, prolungando l'intervallo di tempo che mi separava dalla sedia vuota e che mi allontanava definitivamente dagli altoparlanti della gelateria e dall'ultimo clip di Marylin Manson. Un giovane cameriere sparecchiò il tavolino avendo cura di non sfiorare il quotidiano, mentre la donna osservava i miei movimenti rallentati. Marylin Manson urlava tra le chitarre elettriche e l'innocuo bombardamento. Mi sedetti davanti alla donna. Piccole rughe avevano scritto brevi parole sotto gli occhi. Si trattava di accenni che sembrava potessero essere spazzati via con una carezza, invece era il tempo ancora incerto che si faceva strada dentro di lei. Ero a meno di un metro da lei e la sua bellezza siderale brillava bianca, un velo di sudore stentava ad abbandonare la pelle e perdersi nella notte. Gli occhi avevano un trucco talmente leggero da confondersi con i riflessi del potassio. La donna mosse una mano e la protese verso di me, sfiorandomi il petto con il polpastrello dell'indice. Le iridi impazzivano nella pretesa di riflettere il cielo. Le dita curate s'infilarono nella fessura tra i bottoni della camicia senza che l'espressione del suo volto si concedesse una qualsiasi modifica. La prima pagina del Wall Street Journal allarmava gli investitori ipotizzando un intervento militare statunitense in America Latina. Carezzai il dorso liscio della mano della donna, avanzando fino al confine tracciato dal cinturino dell'orologio, poi mi alzai per raggiungere i miei compagni. In quel momento iniziava il bombardamento di Lima.

Il contatto ci attendeva poco lontano, nel retro di un bar semideserto, a ridosso di un ponte ferroviario. Al bancone sostavano solo due avventori interessati più all'alcol che ai fuochi artificiali. Il padrone ci indicò una porta in fondo alla sala senza che avessimo avuto bisogno di pronunciare una sola parola.

Il contatto giocava a carte, davanti a lui erano disposte le file ordinate di un solitario.

- Zombie - tagliò corto Frank che era geneticamente immune alle strategie e ai preamboli. - Noi siamo quelli del browser - disse ruotando la testa verso di me e di Peter, abbracciandoci con lo sguardo e concludendo le presentazioni.

Il contatto non si alzò, soppesò la carta come se posizionarla correttamente fosse più importante di ogni altra cosa, poi la ripose nel mazzo di scarti. Peter disapprovò con una smorfia, avendo stabilito che la decisione migliore era un'altra.

Rimanemmo in piedi ad attendere che l'uomo parlasse, ma prima si caricò la pipa, poi l'accese e sbuffò una voluta di fumo aromatico nella stanza disadorna. Tutto in lui rendeva una sensazione sgradevole. Iniziava a perdere i capelli ed era magrissimo. Gli arti erano molto sottili e ricordavano le zampe fragili di un ragno. Indossava jeans neri, una camicia azzurra e una cravatta larga, e, nonostante la notte estiva, una giacca fuori stagione beige. Lo sguardo era volgare, ci squadrava con superiorità, come volesse affermare una differenza tra noi e lui, come se fosse ancora indeciso se parlarci o meno.

Frank agguantò una sedia e si sedette davanti a lui, ma fui io a parlare.

- Tra due minuti usciamo di qui, se non prima - dissi aspramente. - E se c'è qualche problema, i nostri che sono fuori bucano il muro con una granata.