L'agile aerodina cruciforme si levò dalla strada in una nube di vapore grigiastro, illuminando le sei-ruote ferme, i lampeggianti accesi, con la fiamma dei suoi scarichi. In un attimo, risalì la cupa profondità del canyon tra le pareti delle immense torri Ziqqurat, sfilando davanti alla miriade di finestre chiuse.

Ogni appartamento della Ziqqurat era un blocco prefabbricato, autosufficiente, sovrapponibile ed affiancabile agli altri per formare una struttura il cui unico limite era la volontà dell'uomo: quella stessa volontà che all'ottocentesimo piano era venuta a mancare. L'illuminazione non funzionava più da tempo. Un'unico, affilato raggio di sole ramato entrava dalla grande finestra: quella poca luce che filtrava tra i relitti degli altri edifici. Il quartiere delle Ziqqurat era una sconfinata carcassa di polimeri consunti.

Ima, in piedi, nella vasta sala semivuota. Al trecentoquarantaseiesimo piano avvertì il passaggio dell'aerodina, i vetri tremare nel suo rombo. Non si voltò. Osservava silenziosa il letto sfatto dalle montature rugginose, e ciò che conteneva. Due corpi, di un uomo e di una donna, che erano diventati Uq.

L'occhio allenato di Ima poteva cogliere anche nella penombra i numerosi punti di connessione, vicino ad un orecchio, tra la terza e quinta costola, lungo la coscia. Si erano fusi con una certa precisione, quasi simmetrica.

Uq sembrava non badarle, mentre Ima si avvicinava a passi lunghi e lenti; sembrava non far caso nemmeno ai colpi dei pesanti scarponi sul pavimento ingombro di detriti. Coi suoi quattro occhi fissava uno spigolo spoglio del soffitto, con insistenza, come fanno i gatti. Un icore vischioso imbrattava il vecchio materasso.

Ima appoggiò un braccio sulla spalliera del letto, sporgendosi su Uq. Si soffermò particolarmente su quel lembo di pelle bruna, quello che doveva essere appartenuto alla donna. In più punti essa era in fermento: crepitava e scoppiettava come se fosse arroventata, e bolle di grasso esplodevano in superficie. Ima impugnò la piccola reflex e scattò alcune foto, per l'archivio. Uq protese una mano verso di lei. Ima balzò all'indietro. La creatura gemette. "Vieni a me..."; il sospiro di una sirena morente.

Uscì dall'appartamento, sul pianerottolo dove attendevano le guardie armate . Un uomo si affrettò a chiudere la porta dietro di lei, apponendovi i sigilli di nastro giallo. Con un pennello fu dipinta la consueta grande Q rossa. Quarantena.

- La portatrice era lei. - esordì Ima, mentre l'ascensore la trasportava al piano terra, traballando tutto. L'uomo di fronte a lei, coi gradi di capitano, si limitò a grugnire. Ima si era tolta il casco, bianco come usavano quelli del Servizio Sanitario, e cercò di riavviarsi i capelli unti di sudore. Per quanto li tagliasse corti, non c'era alcun verso di tenerli a posto.

- E lui un maledetto 'consenziente'. Non riesco a sopportarli, e se ne vedono sempre di più. Altri dodici, solo oggi.

- Anche uno soltanto è sempre uno di troppo - disse la voce atona del capitano, da sotto la visiera.

- Sradicarsi lo Spike con le proprie mani nude, o peggio, con una tenaglia da meccanico. Come il nostro amico di sopra; il suo, l'ho trovato gettato nella tazza. Deve aver camminato tutta la notte come un automa, sanguinante, alla ricerca di un portatore che si fondesse a lui.

- O di una portatrice - la corresse l'uomo, ma Ima non ci fece caso.

- E'orribile... conoscerne la tentazione.