Il Capitano aveva slacciato il pesante respiratore e si era ficcato una sigaretta in bocca. La mordeva letteralmente.

- Io prego, signore, - mormorò Ima. - Tutti i giorni. Prego di non diventare come loro. Né io, né...

Con un brusco scossone, l'ascensore si fermò. Si fermò tra il ventesimo ed il diciannovesimo, e fu necessario chiamare una squadra che forzasse le porte, e quindi proseguire a piedi.

Fuori, il sole stava appena per tramontare, ma per le strade era già notte fonda. I bagliori al neon fluivano liquidi dalla base dei palazzi lungo i marciapiedi. Molte sei-ruote della Sicurezza erano già sparite, ed altrettante si apprestavano a farlo. Riservisti dell'ultim'ora fumavano stupidi seduti sui cofani infangati.

Ima saltò sul camper della croce rossa, in sosta in mezzo al viale. Attese un attimo che la doccia ultravioletta finisse il suo ciclo, quindi entrò.

- Si spogli. Solo tuta e maglietta. Si sieda sul lettino. - Ascoltare il vecchio medico della squadra operativa era come metter su un vinile rotto. Ma era cordiale, in fondo. E la visita, come al solito, era pura routine. Lo SpiKe era vivo e in forma; nessuna traccia di infestazione. Ima passò quindi nella saletta adiacente, che fungeva da guardaroba per tutta l'unità; gettò il pesante scafandro di gomma nel cesto del materiale diretto alla decontaminazione, e prese il suo abito civile dallo stipetto. Tutto, naturalmente, plastificato.

Salì sulla propria sei- ruote; mise in moto. La turbina emise un sibilo profondo, smorzato. Sapeva che la griglia protettiva era sfondata da tempo, e provò ribrezzo al pensiero che il motore avesse aspirato uno di quei disgustosi, nudi cadaveri di piccioni che ricoprivano le strade, gonfi e deformati. Sugli animali l'effetto della piaga era più rapido e distruttivo, ma più dignitoso.

Ima avrebbe dovuto mostrare la vettura ad un tecnico; ma, ormai, i meccanici scarseggiavano.

No, pensò. Tutti gli uomini scarseggiavano.

L'appartamento di Ima si trovava in una delle Ziqqurat più moderne e confortevoli. Forse l'ultima costruita: l'ultima delle quali si fosse sentito il bisogno.

Dentro, tutto era candore abbagliante. Ima aveva provveduto personalmente che ogni parete fosse coperta di plastica lavabile, ed ogni oggetto veniva consegnato regolarmente perché fosse disinfettato, due volte al mese.

La piccola Iran la aspettava sulla soglia della sua cameretta, annodanosi le trecce brune. La sua bambina. Ima la salutò, più dolcemente ed affettuosamente possibile, perché le parole potessero sopperire al calore delle proprie dita.

Erano anni che non riusciva a toccare sua figlia.

La sindrome di Reuter era giudicata inguaribile dalla maggioranza degli psicoterapeuti. Ima non poteva dimenticare il giorno in cui la fobia la colse, il giorno in cui se la sentì balzare addosso per rimanerle appiccicata per sempre: nel suo bureau il ventitrè settembre di cinque anni prima sarebbe stato ricordato da tutti come la Prima Crisi di Massa Uq, CMA, quando cinque agenti scesero nei bui sotterranei di una Ziqqurat abbandonata e vi trovarono quella cosa. Enorme.

Uno di loro morì sul colpo, là sotto, folgorato dallo shock; tre non furono più in grado di emettere una parola sensata. La quinta era Ima.

Quando fu dimessa dall'ospedale, dopo lunghe ed estenuanti R.V. sedute, rimase per mesi chiusa in un mutismo ermetico, a chiedersi cosa mai l'avesse potuta salvare dal destino dei suoi compagni. Loro, aveva concluso, dovevano averla vista tutta, mentre Ima ne aveva avuto soltanto una fuggevole visione, un attimo prima di darsi alla fuga. Nessuno ebbe il coraggio di biasimarla per aver abbandonato, impotenti, i suoi colleghi.