L'inverno soffiava un freddo mortale verso il centro della città. Spazzava spettralmente secoli di storia, trascinava rifiuti lungo le strade un tempo percorse da guerrieri piumati, scivolava verso l'antico luogo del sacrificio. Quella era una notte di morte, un dio freddo danzava nel vento. Sua madre gli aveva insegnato a non perdere mai il conto: quella notte terminava un ciclo. Cinquantadue anni erano trascorsi dall'ultimo Fuoco Nuovo: lui era stato un bimbo di quattro anni. Il mattino dopo, il sole si era alzato come sempre, ma sua madre gli aveva detto che Carmelita era morta. Gesù Maria ricordava di aver pianto.

Il problema è che questa notte deve ripetersi il consueto sacrificio: ma è diventato quasi impossibile trovare il sangue giusto. I matrimoni misti hanno imbastardito le origini, una nipote di Gesù Maria si è prostituita e ora se ne viene a partorire nell'ospedale. Eppure...

Nell'angolo, le tenebre si solidificarono. Una donna che stava per dare alla luce un bambino: sì, quello era un sacrificio degno. Il coraggio, la paura, il dolore: un sapore aspro, gustoso. Era perfetto, era come doveva essere. La donna apparteneva quasi totalmente all'antico ceppo, a coloro che conoscevano la giusta venerazione, che nutrivano i loro dèi con cuori umani e sangue. L'ombra alzò un coltello d'ossidiana e pregustò il futuro.

Ma le cose vanno diversamente. Maria Luisa, la nipote di Gesù Maria Lopez, ha rifiutato la confessione e l'assoluzione. Finirà nell'Inferno o nel Paradiso del Sole? Gesù Maria prende una decisione: sarà lui a sacrificarsi.

Se non viene nutrito, il sole morirà e il mondo finirà. Trascinò sotto l'ultimo bagliore della fiamma una scatola, e scelse un lungo e spesso frammento di vetro. Lo sollevò davanti agli occhi: "Mio buon Dio, ricevi il mio spirito". La punta scintillò. Lopez l'abbassò di scatto, se la conficcò nel cuore...

L'ombra avvertì il sapore della morte d'un guerriero. Lasciò la stanza dove giaceva la giovane donna. Il sole avrebbe banchettato.

La città si svegliò. Pochi sapevano che iniziava un nuovo ciclo di cinquantadue anni. Nessuno credeva di essere ancora vivo perché Huitzilopochtli, e il sole, erano stati nutriti.

Immagino - spero di non sbagliarmi - che Quando andammo a vedere la fine del mondo (1973, Urania n. 623; 1971, When We Went to See the End of the World), di Robert Silverberg, sia un buon modo per concludere un articolo come il mio. La trama è adeguatamente fragile e futile, e il raccontino risale al 1971, per cui anticipava molti atteggiamenti oggi ormai radicati al punto da non destare alcun sense of wonder. Dunque: in un futuro non lontano, nel quale la violenza gratuita sta crescendo in modo preoccupante benché nessuno se ne preoccupi seriamente (per esempio, si commettono atti di estrema violenza per protestare contro la violenza), e in cui ostentazione, arrivismo e arrampicatori sociali hanno dalla loro leggi e opinione pubblica, uno degli ultimissimi divertimenti à la page è andare, affittando una macchina del tempo, a visitare i giorni finali del mondo. La cosa tuttavia riscuote, in società, un modesto interesse, anche perché le testimonianze divergono: chi dice d'aver visto (stando ben al riparo nella cronomacchina) il Sole trasformarsi in nova e fare della Terra poltiglia; chi invece afferma di essere andato oltre, quando anche la nova sarà evaporata e campeggerà solo un cielo nerissimo; altri raccontano ulteriori meraviglie. Ma poi, ragionano in realtà costoro, fino a che punto val la pena sottoporsi a bravate del genere?