Per M. Caterina Mortillaro, autrice milanese, questo 2019 può ben dirsi l’anno della consacrazione. Il suo romanzo Devaloka. Il pianeta degli dèi (Delos Digital, collana Convoy n. 60, € 19.00 – ebook, collana Odissea Digital Fantascienza n. 77, € 4,99) si è aggiudicato il Premio Odissea e ha poi curato l'antologia DiverGender, insieme a Silvia Treves (Delos Digital, collana Odissea Fantascienza n. 84, € 16.00 – ebook, collana Odissea Digital Fantascienza n. 75, € 3,99), una raccolta di racconti ce per tema principale il gender.

Insegnante. Traduttrice e antropologa, nel campo della narrativa ha pubblicato alcuni racconti di fantascienza e un romanzo per ragazzi, Gli amici della torre normanna. Sempre per Delos Digital sono usciti i romanzi Cicerone – Memorie di un gatto geneticamente potenziato e Bollywood Babilonia.

A Caterina abbiamo chiesto di parlarci di Devaloka e di DiverGender, opere che sono state certamente influenzate dai suoi studi in antropologia.

 
Quali sono i tuoi scrittori preferiti della narrativa fantastica e di fantascienza, quelli che ti sono piaciuti come lettrice e ti hanno “formata” come autrice? 

È una domanda molto difficile. In realtà credo di essermi formata come autrice mescolando elementi molto diversi che vanno dai poemi omerici alla fantascienza classica (Van Vogt, Asimov, Anderson, Farmer, Aldiss, Tiptree, Le Guin…) passando per la letteratura latina e greca, Ariosto, Shakespeare, il romanzo ottocentesco e tutti quegli autori che si studiano a scuola. Più facile dire il tipo di fantascienza e fantasy che mi affascina di più: la narrativa sociologica ma al tempo stesso avventurosa, capace di trasportare il lettore in luoghi e tempi lontani senza rinunciare a veicolare contenuti.

Hai vinto il Premio Odissea 2019 con il romanzo Devaloka. Il pianeta degli dèi, che cosa ha significato per te questo importante e prestigioso traguardo? 

Ho investito molto tempo ed energia per scrivere Devaloka. Di conseguenza, ho sempre creduto molto in questo romanzo, ma i tempi dell’editoria sono spesso dilatati e cominciavo a disperare di vederlo pubblicato adeguatamente. Poi è arrivata la bellissima notizia. Ho sentito la tensione sciogliersi e ho cominciato a ridere per la grande gioia. Al tempo stesso, però, ho capito che il premio era solo l’inizio. Ora Devaloka deve farsi conoscere. E poi, come disse qualcuno, da grandi onori derivano grandi responsabilità. Dopo che vinci un premio prestigioso, devi mantenere uno standard alto, anche perché ci sono molti occhi puntati su di te.

La premessa del romanzo è che, durante il viaggio di coloni terrestri verso Marte, a causa di un incidente, i moduli della nave spaziale che contengono i coloni indiani vengono abbandonati. Come è nata l'idea alla base del romanzo? 

In realtà il romanzo è nato da un’immagine: divinità dormienti negli interstizi dimensionali, confinate nel buio dopo una grande guerra, venivano risvegliate dal passaggio di una nave spaziale attraverso un wormhole. L’idea è rimasta lì, in attesa di svilupparsi, per alcuni mesi. Nel frattempo stavo studiando la cultura indiana per il mio dottorato in antropologia, così, a poco a poco, si sono aggiunti dei tasselli. Ho cominciato a immaginare un pianeta colonizzato da indiani e una survey, come quelle degli albori della ricerca antropologica, che veniva inviata per studiarlo. La genesi del romanzo, comunque, è stata molto travagliata. Ci sono state numerose stesure, con cambi di rotta repentini e riscritture prima di approdare alla versione definitiva.

 
La protagonista del romanzo si chiama Chiara Minniti ed è un'antropologa. Puoi descrivercela? 

Chiara è una donna moderna, decisa, competente, con una carriera prestigiosa. È quanto di più lontano dal prototipo della femmina svenevole e sottomessa, che attende di essere salvata dal maschio di turno. Per certi versi, è l’antropologa che avrei voluto diventare, capace di rischiare tutto per portare avanti le sue ricerche in luoghi anche ostili. Al tempo stesso, però, è profondamente umana, a tratti fragile e ha un carattere abbastanza irruente. Infine, ha uno spiccato senso del sacro e un difficile rapporto con la religione istituzionale.

Mi somiglia? C’è molto di me in lei, ma Chiara non sono io. Soprattutto per quella sua predilezione per una certa categoria d’uomini che il lettore scoprirà.

 
È evidente che la tua formazione di antropologa sia stata fondamentale per la scrittura del romanzo. Cosa hanno in comune, secondo te, fantascienza e antropologia? 

Credo che antropologia e fantascienza siano molto simili. Entrambe descrivono mondi lontani, con il loro corredo di culture e usanze. Inoltre, ci mettono in contatto con l’Altro. Nell’antropologia l’Altro è lo straniero, il cosiddetto “nativo”; nella fantascienza spesso è l’alieno. Per questo credo che se mai troveremo altri esseri senzienti nello spazio, gli esoantropologi saranno fondamentali. Infine, leggendo un’etnografia o un romanzo fantascientifico siamo costretti a guardare oltre i confini del nostro piccolo mondo, a scardinare le nostre certezze, ad ampliare la nostra visione.

 
Senza svelare troppo, che tipo di romanzo devono aspettarsi i lettori? 

Devaloka può essere letto a più livelli: c’è l’avventura in un mondo totalmente alieno, c’è la possibilità di calarsi nella cultura indiana, c’è una forte riflessione sulla religione e sul sacro; si parla anche delicati equilibri politici; ci sono persino l’amore e l’amicizia. Molti mi hanno detto che si tratta di un romanzo classico, perché non ci sono strane sperimentazioni formali e la trama è abbastanza lineare, ma al tempo stesso è innovativo per i temi trattati.

 
Parliamo anche di DiverGender, l'antologia che hai curato insieme a Silvia Treves e che ha come tematica centrale il gender. Come è nata l'idea? 

Gli studi di genere mi hanno sempre interessata moltissimo, al punto che tempo fa avevo pensato di avviare una ricerca antropologica sulle persone trans. Questo mi ha permesso di conoscere alcuni attivisti LGBTQI+. Anche se poi la ricerca non si è svolta, sono rimasta affascinata da questo mondo che non conoscevo. Oggi, purtroppo, assistiamo a un tentativo di annullare le molte conquiste che riguardano i diritti delle donne e di coloro che non rientrano in un sistema binario e patriarcale. Al tempo stesso, la tecnologia ci pone di fronte a nuove possibilità di manipolare il corpo (penso agli interventi per la transizione MtoF e viceversa, ma anche alle nuove forme di genitorialità). Alcuni sono spaventati da tutto questo, ma non ha senso negare tutto e cercare di tornare ai modelli oppressivi e discriminatori del passato. A me e a Silvia, quindi, sembrava doveroso che anche la fantascienza italiana cominciasse a parlarne e a dare il suo contributo.

 
L'antologia è costituita dai racconti di sette autori italiani, da due stranieri e ci sono tre saggi che trattano della tematica gender e fantascienza. Come mai questa scelta “ibrida” narrativa/saggistica? 

Credo fermamente che la fantascienza sia soprattutto speculative fiction ovvero che parli per parabole. Questa è una sua grande forza. La trasposizione di certi temi e certe figure in contesti futuri, alieni, stranianti, diversi dal quotidiano permette al lettore di affrontare argomenti anche molto controversi senza sentirsi minacciato. La saggistica, invece, offre una visione scientifica dei problemi del nostro mondo. Unendo queste due voci così diverse la nostra idea era quella di offrire al lettore un viaggio nell’immaginario, ma poi dargli anche strumenti seri di riflessione. E di far capire che la fantascienza non è un solo un divertimento per nerd, una letteratura di serie C, ma un genere letterario capace di affrontare temi importanti forse meglio di altri.

 
Dal tuo punto di vista, qual è la situazione attuale della fantascienza femminile in Italia? 

Ho conosciuto molte autrici donne di talento. La cosa mi fa piacere perché, senza cadere negli stereotipi di genere, credo che possano portare in questo genere un modo di vedere le cose diverso da quello tradizionale che ha dominato per decenni. Mi fa piacere anche perché le donne non devono più nascondersi dietro pseudonimi maschili, come è avvenuto in passato. Credo, però, che ci siano ancora molti pregiudizi. Un tale, dopo aver letto uno stralcio di poche righe di DiverGender, ha commentato che le donne scrivono solo di f***. A me risulta che sia un argomento molto caro ai maschi etero. O no? A parte gli scherzi, simili commenti svalutativi dimostrano che c’è ancora molta strada da fare. Però, non mi piacerebbe che le scrittrici donne venissero esaltate in quanto femmine, come se fossimo una specie protetta, per rispettare le “quote rosa”. La buona letteratura è buona letteratura, non importa che cosa ha tra le gambe chi la produce.