Tutto ciò che i giocattoli di Orson Welles hanno rappresentato per la storia del cinema da Quarto potere in poi, lo ritroviamo nel grazioso soprammobile che sporca il Natale di Joe Potter, di Matt Trent e della polizia che deve investigare. Il lavorio di ingegneria sociale inscenato nella casetta in mezzo alla neve serve a carpire informazioni, a strappare confessioni. La casetta sotto la neve è la scena principale che accoglie il dialogo tra Matt Trent e Joe Potter. Ma è anche una ricostruzione virtuale della scena del delitto. Ed è anche (sublime vertigine metalinguistica) l’oggetto con il quale materialmente si compie il delitto di Joe.

Qui spiazza il fatto che per ottenere la confessione di Joe Potter ne venga circuito l’avatar. Quello che viene messo in scena e drammatizzato da Charlie Brooker è quel lavoro di analisi e decrittazione che di solito svolgono i poliziotti e gli scienziati forensi sui computer degli indagati. Sconcerta ancora di più la rivalsa morale dei poliziotti che per puro sadismo condannano l’avatar di Joe a rivivere per sempre quella infernale mattina di Natale. La canzone “I wish it could be Christmas every day” accompagna una specie di illusione ottica alla Escher che inchioda il simulacro di Joe in un loop visivo infinito racchiuso nella boccetta di vetro con neve.

Tirando le somme di questo dannato Natale tutti i protagonisti vengono puniti: lo sfigato tecnofilo muore avvelenato dalla bella Jennifer (avvenente ma genuinamente schizofrenica); Joe viene inchiodato (abominevole il suo duplice omicidio) e presumibilmente passerà il resto dei suoi giorni in galera; Matt ne esce con la fedina penale pulita ma è “bloccato” da tutti. A proposito di quest’ultima punizione viene quasi da pensare che qualunque prigionia sia preferibile ad una esistenza accompagnata dalle inquietanti sagome opalescenti del “blocco”. Altro che nero: così il bianco del Natale ci sembra ben più inquietante di uno specchio oscuro.